martedì 7 giugno 2011

Acqua, in borsa il tesoro vale 300 milioni di euro per i sindaci

GIOVANNI LANTINI

La partita di giro dei gestori idrici a Piazza Affari: molti amministratori locali hanno bisogno di assicurarsi dividendi e poltrone

Oltre 300 milioni di euro. È questa la cifra che, alla vigilia del referendum, le utilities quotate in Borsa con attività nell’acqua distribuiscono ai loro soci sotto forma di dividendi. Naturalmente dopo aver pagato 8,6 milioni di compensi ad amministratori e sindaci. Le municipalizzate quotate a Piazza Affari che oltre all’acqua gestiscono servizi di energia l’anno scorso hanno realizzato utili per complessivi 443 milioni e dichiarato investimenti per 1,4 miliardi. La più generosa è Iren. Terzo operatore italiano dei servizi idrici integrati nato nel 2010 dalla fusione tra Iride (a sua volta frutto delle nozze tra Aem Torino e Amga Genova) ed Enia (Agac Reggio Emilia e Amps Parma e Tesa Piacenza), l’azienda, che vanta tra i soci i comuni di Torino, Genova, Parma e Reggio Emilia, oltre a un folto gruppo di piccoli comuni delle province di Reggio, Parma e Piacenza, ha guadagnato 178 milioni, un centinaio dei quali torneranno agli azionisti.

Nel dettaglio nelle casse degli enti pubblici andranno complessivamente 52,6 milioni, ben 30 dei quali ai comuni di Torino e Genova. Il resto è per Intesa San Paolo (3 milioni) e la Fondazione Crt (2,5 milioni) di Fabrizio Palenzona. Per Iride, che tra i partner più rilevanti conta il fondo F2I di Vito Gamberale, suo socio in Mediterranea delle Acque e che dà lavoro a 4.572 persone, il business dell’acqua è però solo una piccola fetta del totale, pari a circa un quinto dei margini.

Decisamente più importante è invece per la romana Acea, 6.700 dipendenti e già campo di battaglia tra il comune di Roma, i francesi di Gdf e il costruttore-editore Francesco Gaetano Caltagirone. Quest’ultimo infatti è molto interessato proprio all’oro blu e non è disposto a cedere ai francesi, che pure in Italia hanno diverse alleanze con enti pubblici per la gestione del servizio idrico. Il punto è che il business dell’acqua fa gola ai privati perchè nei prossimi trent’anni servono 64 miliardi di investimenti, 14 per cento dei quali dovrebbe arrivare dalle casse pubbliche. Di qui l’interesse per Acea, che gestisce il servizio idrico negli ambiti ottimali territoriali (Ato) di Roma, Frosinone e province, oltre a significative presenze in Toscana, Umbria, Campania e altre aree del Lazio, per un totale di 8,5 milioni di abitanti.

Il gruppo, che nel 2010 ha speso in pubblicità e sponsorizzazioni oltre 8 milioni, deve infatti quasi il 43 per cento dei suoi 666,5 milioni di margini all’acqua, nella quale dichiara di aver investito, nello scorso esercizio, 202,8 milioni. E dopo aver chiuso il bilancio con utili per 92,1 milioni, investimenti in calo di quasi 45 milioni a 473 milioni per “l’esigenza di calmierare l’espansione dell’indebitamento” che al 31 dicembre ammontava a 2,2 miliardi, si appresta a distribuire 95 milioni agli azionisti: poco più della metà, 48 milioni, al comune di Roma, mentre a Caltagirone sono destinati 14 milioni e ai francesi quasi 11. Ad amministratori e sindaci, invece, è già andato più di 1 milione e mezzo, 72mila euro dei quali al consigliere indipendente in quota Campidoglio Luigi Pelaggi, già noto per il suo contemporaneo ruolo di capo della segreteria tecnica del ministro dell’Ambiente.

Conflitti d’interesse a parte, gli organi di amministrazione e controllo meglio retribuiti, però, sono quelli della bolognese Hera (oltre 6.400 dipendenti), che nel 2010 hanno percepito in totale ben 2,56 milioni. Del resto il secondo operatore italiano dell’acqua – l’anno scorso gli ha portato il 23 per cento dei 607 milioni di margine – ha chiuso l’esercizio con utili per 142 milioni e debiti per 1,86 miliardi, dopo investimenti per 341,9 milioni, il 27 per cento dei quali nel servizio idrico integrato che copre sette province dell’Emilia Romagna e del nord delle Marche. Ai soci andranno un centinaio di milioni in cedole, il 12,5 per cento in più del 2009. Quindi una quindicina di milioni al comune di Bologna, poco più di una dozzina a Modena, 7 a Ravenna, 5 a Imola, mentre a Rimini, Cesena e Ferrara andranno quote comprese tra 2 e 2,7 milioni, somme simili a quelle destinate agli investitori di Lazard e a Carimonte Holding.

Cifre lontane anni luce dalle piccole Acegas-Aps e Acsm-Agam, che però quanto a debito e stipendi degli amministratori, fatte le dovute proporzioni, non hanno nulla da invidiare alle grandi. Soprattutto la prima, che distribuisce l’acqua nelle aree di Trieste e Padova e ha chiuso il 2010 con 22 milioni di utili, 96,7 milioni di investimenti e ben 439 milioni di indebitamento. In attesa di trovare una soluzione al debito generato negli anni da una serie di operazioni finanziarie che hanno coinvolto i due comuni azionisti, con l’incombente rata da 250 milioni verso Intesa Sanpaolo che scadrà nel 2012, la municipalizzata del nord-est (1.700 dipendenti e il 35% dei margini generati dall’acqua) quest’anno ha stanziato per le cedole poco meno della metà dei profitti: 9,89 milioni. Il 62,84%, cioè 6,17 milioni, sono per Acegas-Aps holding, che a sua volta è controllata dai comuni di Padova e Trieste. A seguire, la Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste con circa 500mila euro e il socio-creditore Intesa con 360mila euro. É andata meglio agli amministratori e ai sindaci che hanno incassato quasi 1,4 milioni. Circa il doppio dei colleghi brianzoli di Acsm-Agam, 423 dipendenti, poco più di 8 milioni di utili nel 2010 dopo investimenti per 7,7 milioni e margini per quasi 40 milioni (solo 4 riferibili all’acqua) e un debito di 115 milioni. A spartirsi 4,6 milioni di cedola sono stati i comuni di Monza (29%), Como (25%) e la collega di Milano e Brescia A2A (22%). Pochi ma buoni, commenterebbero da Torino, dopo che Acque Potabili, affossata dalle attività siciliane, ha lasciato i soci a secco. Perché l’oro non luccica per tutti, anche se è un’indubbia fonte di cupidigia.

Da Il Fatto Quotidiano del 7 giugno 2011

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