venerdì 24 giugno 2011

Ecco perché Santoro ha spezzato ora le catene

BEPPE LOPEZ

Il “la” lo ha dato Michele Santoro. La sua uscita dalla Rai, questa volta, avviene in un sistema della comunicazione e della politica effettivamente attraversato da processi di innovazione che possono considerarsi strutturali. Facciamone un elenco approssimativo per difetto: la crisi platealmente definitiva del berlusconismo, l’insorgere di nuovi protagonisti politici (la rete, il Popolo viola, le donne ecc.), le strepitose evoluzioni tecnologiche dell’intreccio internet-tv-telefonia, l’esistenza di un mercato editoriale e giornalistico “altro” ormai robusto (Travaglio, Chiarelettere, il Fatto ecc.) e infine, appunto, i passaggi in atto questi giorni, queste ore, di autori e di conduttori fra la Rai, La7 e Sky. Ilaria D’Amico da La7 a Sky, Saviano e Fazio che portano Vieni via con me su La7, con Fazio che continua Che tempo che fa in Rai e Santoro che va via dalla Rai e forse finisce effettivamente su La7, dove già c’è il Mentana uscito da Mediaset dopo 18 anni di giornalismo berlusconiano, diciamo così, di frontiera.

Che sia proprio l’”anno zero” dell’informazione (oltre che della politica) in Italia, come aveva enfaticamente annunciato Santoro nell’ultima puntata Rai di Annozero? Che finalmente cominci a prendere corpo un vero e proprio mercato dell’informazione anche da noi? Staremo a vedere.

Ma di elementi per pensarlo, oltre che per sperarlo, ce ne sono di concreti. E di fortemente simbolici. Primo fra tutti, la fine del rapporto contrattuale di Santoro con la Rai. Un rapporto per molti aspetti anomalo. Da dipendente e a tempo indeterminato, prima di tutto, e non da star televisiva a contratto a termine e a progetto (come ad esempio quelli di Vespa, della Gabanelli, dell’Annunziata, della Dandini e dello stesso Floris).

Anomalo anche per il livello economico del compenso: dopo il direttore generale, Santoro era forse il dipendente Rai più pagato in assoluto. E questo in base ad un’altra serie di analoghe anomalie che in Rai sono “normalità”: direttori generali e direttori di testata, non come avviene in qualsiasi altra azienda e giornale, ben pagati e non assunti a termine, ma ben pagati come sul mercato epperò col diritto di rimanere a vita in azienda, anche dopo aver esaurito il compito dirigenziale e persino rimanendo senza funzioni sino all’età del pensionamento.

Anomala – in adeguata risposta alle anomalie della sistematica intrusione della politica in viale Mazzini, dei direttori decisi in casa Berlusconi, del conflitto di interessi, dei direttori generali eterodiretti da cricche e P4, di incapaci e servi del potere elevati a rango di dirigenti per mortificare e mettere in grado di “non nuocere” giornalisti e dirigenti con la schiena dritta ecc. ecc. – era anche la collocazione di un conduttore e di una trasmissione nel palinsesto di una rete televisiva (peraltro di primaria importanza) da parte di un magistrato.

Ma la decisione di Santoro di accordarsi per la liquidazione del suo rapporto con la Rai, dopo una lunga e penosa trattativa, e di “spezzare le catene” è un fatto che riguarda un’intera generazione e la storia più che trentennale del sistema della comunicazione in Italia e dei suoi strettissimi legami prima con i partiti, poi con i relitti partitici e affaristici allo sbando (mediocrizzati e inferociti) che hanno animato il ventennio berlusconiano.

Dagli anni Settanta, mentre ancora il giornalismo “erano” i giornali e miopemente i giornalisti sottovalutavano la potenza devastante che avrebbe sviluppato la Tv commerciale, la Rai fu imbottita di giovani di partito perlopiù alla ricerca di prima occupazione e comunque di uno sbocco professionale. Verso la fine di quel decennio, in particolare, viale Mazzini smise di essere un “latifondo democristiano” e anche i partiti di sinistra, a cominciare dal Psi e dal Pci, conquistarono i propri lotti. E fu la generazione rappresentata, al massimo livello di riuscita, dai Santoro, dai Mentana, dai Saccà…

Ai più è stata data l’opportunità di starsene in Rai, crescendo man mano di grado funzionale e di stipendio, alternando momenti di stallo a momenti di nuovo avanzamento (a seconda delle fasi politiche e degli esiti elettorali dei partiti e delle correnti di riferimento), affacciandosi a momenti di popolarità (la Tv non richiede necessariamente di essere professionalmente esperti e bravi, basta essere “efficaci”, anche casualmente o grazie persino a difetti di postura o di pronuncia o di carattere, e “bucare lo schermo”)… I più bravi o anche solo i più efficaci invece si sono fatti largo, acquisendo visibilità e apprezzamento stabili “sul mercato” e quindi un personale potere contrattuale e più o meno notevoli spazi di manovra e di autonomia rispetto alla politica dalla quale provenivano.

In realtà, in tutti questi anni, siamo vissuti in un finto mercato televisivo, senza concorrenza, con due soli padroni (i partiti al governo attraverso la Rai e Berlusconi con Mediaset), poi con un solo padrone (Berlusconi attraverso la Rai e con Mediaset) e con La7 neutralizzata e ridotta a presenza inessenziale – se non di fatto come ostacolo alla creazione di un terzo polo – dai rapporti e dagli scambi di favore fra quella proprietà finanziaria e Berlusconi.

L’arrivo di Murdoch e lo sviluppo tecnologico hanno creato le premesse di ciò che ora, a contesto politico in trasformazione, può finalmente avvenire. Ma ci voleva qualcuno che spezzasse le catene. Non potevano farlo certamente i Saccà, che hanno marcato nel tempo parecchi giri di quelle catene. Non lo ha fatto Mentana, più furbo ma meno immaginoso e passionale di Santoro: sarebbe rientrato volentieri in Rai, accontentandosi di andare ad aggiungere qualcosa a La7. Lo ha fatto, lo sta facendo Santoro. Prima, egli poteva solo uscire dalla Rai per andare addirittura a Mediaset o, in attesa dell’esito della sua vertenza, farsi un’esperienza come europarlamentare o vagheggiare, nientemeno che con Maurizio Costanzo, un “telesogno”. Ma ora la situazione è cambiata. “Siamo all’anno zero”.

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