lunedì 6 giugno 2011

Il consiglio di guerra dei sopravvissuti

MATTIA FELTRI

Smarrito nel suo labirinto, Silvio Berlusconi sperimenta oggi una nuova possibilità: di essere messo spalle al muro da sottoposti e alleati nel summit di Villa San Martino che sarà animato dai capitani pidiellini (Tremonti e Alfano) e dai vertici leghisti.

Il presidente del Consiglio sentirà come sono salate le condizioni se non è lui a porle. La ridotta nella quale il premier si è asserragliato contro tutto e contro tutti, quasi a cercar la bella morte, non sarà l’ultima trincea di chi per diciassette anni gli ha combattuto al fianco. E quindi, se si deve tenere le armi in pugno, ancora, le si terrà secondo i nostri piani, prendere o lasciare: questo si sentirà dire il Grande Capo.

Quanto vogliamo andare avanti? Per fare che? Per quanto tempo? Con questa maggioranza? Soprattutto - scandalo degli scandali - al prossimo giro, chi sarà il nostro candidato a Palazzo Chigi? C'è poi la questione decisiva della manovra finanziaria, venti miliardi di euro da scucire in due anni, cinque subito, altri quindici nel 2013, e col pareggio di bilancio garantito all'Europa nel 2014. Mica niente. Intanto, diranno i cerberi a Berlusconi, non si pensi di vararla e di votarla alle condizioni di venti responsabili, arrivati in maggioranza con ragioni le cui solidità sono quotidianamente verificabili, fra ricompense pretese e spettacolari andirivieni. L’idea è di mettere in piedi qualcosa di più credibile e strutturale con l’Udc di Casini, che però in cambio non vuole una testolina qualsiasi, ma quella del capo del governo. L’alternativa c’è: elezioni anticipate al 2012.

Il riassuntone del menu di giornata è sufficientemente raggelante. Intanto fa una certa impressione un vertice sul futuro della legislatura e dell’esecutivo riservato in fondo a due leader soltanto, Berlusconi e Umberto Bossi, in confronto alla profusione dei tempi andati: potrebbe essere il sintomo di una coalizione moderna e sintetica, visti i consensi pare più il consiglio di guerra di pochi sopravvissuti. Poi si intravede senza grande sforzo un asse Bossi-Tremonti meno ipotetico del solito; la natura delle richieste sa tanto di linea concordata. Infine lo straordinario inedito di cui si diceva all’inizio: per la prima volta non è Berlusconi a imporre la linea. O meglio: sarà ancora lui a decidere, ma in un caso avrà ancora per un po’ il sostegno di tutta la coalizione, nell’altro sarà dolcemente e progressivamente abbandonato al suo destino. Insomma, un leader in ostaggio.

Davanti a questo quadretto c’è un Berlusconi in drammatica crisi non soltanto di consenso ma di idee. Oramai (incredibile il rimpastino con immissione di nove sottosegretari a dieci giorni dalle Amministrative, cose che neanche il più involuto dei Forlani...) il genio teatrale del premier, quello che ha rivoluzionato la prassi della politica italiana, sembra inaridito e involuto sino a cercare rifugio negli scialbi riti primorepubblicani. E dopo il ceffone del voto, Berlusconi pare aver fallito anche nella sua specialità: il lifting. Tutto si è concluso con la promozione del bravo Alfano, se mai predellini e fuochi d’artificio sarebbero bastati. Fosse un film, mancherebbe soltanto l’ultima scena: sta a Berlusconi, alle carte che ha in mano, al suo senso delle cose e della vita, stabilire il finale.

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