sabato 18 giugno 2011

Il segugio

di Marco Travaglio

Dura la vita del segugio. Prendete Gian Marco Chiocci, il watch dog più olfattivo del Giornale.

L’estate scorsa la trascorse fra Montecarlo e il mobilificio Castellucci sull’Aurelia, all’inseguimento della celebre cucina componibile Scavolini di casa Tulliani.

Poi traslocò a Saint Lucia, Caraibi, alle calcagna del pirotecnico ministro Francis.

Rischiò anche un dirottamento in quel di Mantova, quando il vicedirettore Porro minacciò il portavoce di Confindustria di “sguinzagliare i nostri segugi contro la Marcegaglia”.

Mai un attimo di requie. L’altro giorno nuova mission impossible: scoprire le intenzioni delle toghe rosse napoletane che indagano su Bisignani, dunque terrorizzano Rosa Santanchè e, di carambola, Olindo Sallusti. Lui va, annusa e riferisce la solita patacca allo zio Tibia: “Vogliono arrestare la Daniela”. Ma, astuto come una volpe, non chiama dal suo cellulare: a furia di scrivere che siamo tutti intercettati, ha finito per crederci e dunque s’infila in un phone center per immigrati. Lì, quatto quatto, gatton gattoni, occhiali scuri e cappello alla Sherlock Holmes, orecchie volpine mimetizzate sotto il bavero alzato dell’impermeabile, comunica al direttore la ferale notizia, ovviamente farlocca. Pare che uscendo, tutto compiaciuto per aver eluso i controlli del Grande Fratello Togato, faccia il gesto dell’ombrello.

Non sa, il tapino, che proprio quel phone center, l’unico in tutta Napoli, è al centro di un’indagine per droga: tutti i telefoni sotto controllo, cimici e microcamere in ogni dove. Così, in tempo reale, gli investigatori intercettano la chiamata, che finisce agli atti dell’inchiesta P4. Cosa che non sarebbe accaduta se il segugio avesse usato il portatile.

Individuare i movimenti dell’unico bianco in un locale tutto occupato da africani, cinesi e cingalesi è piuttosto agevole.

La scena ricorda quella di Fantozzi che, volendo chiamare il megadirettore galattico in incognito, per non farsi riconoscere s’infila una patata in bocca, si calza una pentola in testa, si pinza il naso con una molletta da bucato e annuncia trionfante a Filini: “Faccio l’accento svedese”. Compone il numero, biascica un “pron…” e già il megadirettore lo sgama: “Fantocci, è lei? Si tolghi subito quella patata di bocca”.

Viene anche in mente l’episodio clou della breve e ingloriosa carriera di Renato Farina al servizio del Sismi di Niccolò Pollari e del fido Pio Pompa. Pollari teme di finire nei guai per il sequestro di Abu Omar e il 19 maggio 2006 Pompa spedisce Farina, alias “agente Betulla”, alla Procura di Milano in missione per conto di dio, come i Blues Brothers: deve carpire notizie top secret sulle indagini con una finta intervista ai pm Spataro e Pomarici, e possibilmente depistarli con false informazioni sulle complicità della Digos e di un pm nel rapimento (una manovra per far trasferire il processo a Brescia).

Farina Doppio Zero, allora vicedirettore di Libero, non sa che Pompa è già intercettato: i pm, quando accettano di parlargli, già sanno tutto. E stanno al gioco. Lui, rotolando trafelato verso la Procura, ripassa le domande al telefono con Pompa. Poi sale nell’ufficio dei pm che lo aspettano al varco, gli vendono un po’ di fumo e, trattenendo il riso con terribili sforzi maxillofacciali, gli domandano perché sia così interessato al ruolo di Pollari nel caso. “Io sono cattolico – improvvisa il machiavellico spioncino – e mi spiacerebbe se un cattolico come Pollari facesse cose brutte”.

Manca poco che i magistrati finiscano sotto il tavolo per le risate.

Lui intanto scende in strada e fa rapporto a Pompa: “È stata durissima, ho rischiato l’arresto, ma alla fine li ho messi all’angolo e ho avuto quel che cercavo”. Cioè un sacco di balle. Farina patteggerà sei mesi per favoreggiamento nel sequestro e sarà radiato dall’Ordine dei giornalisti. Ma ora l’agente Doppio Zero ha un erede. Piccole Betulle crescono.

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