martedì 14 giugno 2011

L'energia positiva di un voto

Saranno ormai tre lustri che i referendari vivono in una riserva indiana, circondati da forze sovrastanti; e dopo 24 referendum senza quorum ci avevamo fatto il callo, stavamo cominciando a rassegnarci. Tanto più in quest'occasione, con il voto trasformato in una gara d'alpinismo (terzo appuntamento elettorale in quattro settimane). Con un'informazione tardiva e insufficiente nelle Tv di Stato. Con mezzo governo che ci ammoniva a non sprecare tempo: quesiti inutili, inutili pure gli elettori. Infine con l'esperienza fresca fresca delle Amministrative, dove il partito del non voto è stato di gran lunga il più (non) votato. E allora com'è che l'onda d'astenuti alle elezioni provinciali (55%) è diventata uno tsunami di votanti (il 57%) sui 4 referendum?

Risposta: perché gli italiani non ne possono più dei politici italiani. Non della politica, però. Non se esprime facce nuove, meno logore di quelle che frequentano il Palazzo da vent'anni. Non se interroga questioni di fondo del nostro vivere comune. Sicurezza, ambiente, eguaglianza, confine tra pubblico e privato: dopotutto erano queste le domande sollevate dai referendum. Gli elettori hanno risposto bocciando altrettante leggi del governo, e bocciando perciò il governo nel suo insieme.
Ma l'opposizione farebbe molto male a sfilare sotto l'Arco di Trionfo. C'è infatti un collante, c'è un denominatore comune fra le Amministrative e i referendum: il ritiro della delega. Perché adesso gli italiani hanno deciso di decidere, senza subire le scelte di partito, quale che sia il partito. Ne è prova il voto del 30 maggio a Napoli, dove metà degli elettori si è tenuta lontana dalle urne, mentre l'altra metà ha espresso un plebiscito per un uomo fuori dai partiti, persino il proprio. Ne è prova la manifestazione del 10 giugno che ha chiuso la campagna per i referendum, rigorosamente senza bandiere di partito: gli organizzatori sapevano quanto fossero indigeste.

Da qui una duplice lezione, sempre che la politica abbia voglia d'ascoltarla. Primo: il testo del referendum dipende dal contesto. È infatti il clima del Paese che imprime forma e forza ai singoli quesiti, caricandoli di significati generali. Funzionò così per il divorzio e per l'aborto (un'iniezione di laicità nel nostro ordinamento), per i referendum elettorali dei primi anni Novanta (una domanda di ricambio nelle classi dirigenti), o altrimenti per le tante consultazioni andate a vuoto, senza un vento popolare a soffiare sulle vele. Perché ogni referendum ha questa valenza: serve a incanalare un'energia. Non a caso l'istituto fu battezzato in due Stati (Usa e Svizzera) che non contemplavano lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma il referendum non può creare un'energia politica, può solo intercettarla. Quando c'è, e adesso ce n'è a iosa. Il lungo sonno è terminato.

Secondo: la nostra bistrattata Carta si è presa una rivincita. La «gemma della Costituzione» - come a suo tempo Bobbio aveva definito il referendum - è tornata a brillare. E forse questo sussulto di democrazia diretta convincerà la maggioranza a curare i mali della democrazia indiretta, a partire dalla legge elettorale. Forse ci convertirà un po' tutti a un atteggiamento di maggiore lealtà verso le istituzioni. Ieri abbiamo letto editoriali che bacchettavano il capo dello Stato per essersi permesso di votare. La risposta più sonante l'ha offerta quel 5% di italiani che ha votato «no» ai quesiti, evitando le scorciatoie dell'astensione. Perché ogni referendum fallito nel vuoto delle urne rappresenta pur sempre una sconfitta della democrazia. E perché nessun principio di sovranità popolare può mai attecchire senza un popolo disposto a esercitarla. Votando in massa i referendum, il popolo italiano si è dunque riappropriato della sua Costituzione. Eravamo sudditi, stiamo tornando cittadini.

Michele Ainis
14 giugno 2011

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