sabato 9 luglio 2011

Chi ha paura della questione morale?

di Roberta De Monticelli

Che tuffo al cuore, quelle parole di Enrico Berlinguer sulla questione morale, che questo giornale ha tanto opportunamente ripubblicato in questi giorni. Già allora avevano suscitato alcune aspre reazioni proprio in quella sinistra di cui Berlinguer è stato l’ultimo grande leader, voci che si levarono dal cuore del suo stesso partito. Da allora, è curioso, tutto è cambiato fuorché il genere di argomenti, anzi per essere onesti di non-argomenti, che i critici del “moralismo” accampano contro ogni rinnovata denuncia della questione morale. E non parlo di quei “servi liberi” che hanno inventato per la parola “moralismo” un paio almeno di nuove accezioni negative, oltre a quella corrente di atteggiamento ipocrita, caratteristico di chi predica bene per razzolare male. Non parlo dei vessilliferi delle mutande, che hanno inventato addirittura una versione omertosa del vangelo, dove “chi è senza peccato scagli la prima pietra” vuol dire “se faccio schifo io fai schifo anche tu, e allora sta’ zitto perché non ti conviene”, o che hanno sostituito nella loro mente la parola “giustizia” con l’opaco spregiativo “giustizialismo”.

PARLO proprio, e con dolore, della convinzione ancora diffusa a sinistra che usare in politica argomenti morali sia appunto cosa da non fare, come confondere le categorie. “Moralismo”, appunto, in questa ulteriore versione di machiavellismo veramente troppo spicciolo, sarebbe giudicare amici e avversari non sull’aspetto “politico” delle loro idee o dei loro atti, ma su quello “morale”. Con un corto circuito bizzarro, per cui (primo non sequitur) l’aspetto “morale ” sarebbe necessariamente quello “privato”, e dunque (altro non sequitur), politicamente irrilevante. Così a quell’epoca persone degnissime – lo riporta Luca Telese nel suo articolo su Berlinguer (“Il Fatto Quotidiano”, 5.7.11) - lessero nelle parole di Berlinguer un “pericoloso” attacco alla “politica” dove semmai c’era un attacco ai partiti, che però testimoniava dall’interno di uno di essi di una residua possibilità di riscatto, che si sarebbe dovuto accogliere con gratitudine e rinnovata speranza. Così oggi c’è chi sostiene che la “colpa” non è una categoria politica. C’è chi addirittura nega l’esistenza di una questione morale anche nel Pd – cioè nega l’evidenza. E non tanto o soltanto per la dovizia di fatti accertati, alcuni di rilievo addirittura penale, che coinvolgono politici e amministratori, e che, qualcuno potrebbe obiettare, sono bazzecole in confronto ai crimini in grande scala nella logica bisignanesca del “mangia tutto quello che puoi mangiare”, con la quale siamo arrivati al paradosso inaudito di un governo che distrugge i beni della nazione per nutrirne il suo personale. Ma molto più si nega l’evidenza se torniamo al senso profondo delle parole di Berlinguer, che non denunciava fatti spiccioli, ma la riduzione dei partiti a “macchine di potere e di clientela”: dove l’accento va posto su ognuna delle parole, e forse in particolare sulla prima. Tornano in mente i meccanici ritornelli cui s’è ridotto l’eloquio politico dei leader del Pd, ai logori cliché che continuano a significare, proprio come diceva Berlinguer, mancanza di ideali, programmi vaghi e soprattutto “passione civile zero”. Come l’ossessivo ripetere “agli italiani non importa nulla”, “non sono questi i problemi degli italiani” quando un capo di governo stava per metter mano a una riforma della giustizia che era semplicemente eversiva della democrazia. Espressione pigra e meccanica poi corretta, ma tardi. Qual è dunque il filo che lega questa enorme sottovalutazione della questione morale attraverso le generazioni della sinistra? È – e chiedo perdono se ripeto cose dette, come si ripetono le occasioni di dirle - la nefasta e interessata confusione fra autonomia e indifferenza della politica rispetto all’etica. L’autonomia della politica è una scoperta (sacrosanta) della modernità, ma è resa possibile dalla comprensione del fatto che l’ordine sociale è un bene medio e non un bene ultimo, un mezzo e non un fine. Fine e bene ultimo è la libera fioritura degli individui, nel rispetto reciproco della loro pari dignità e dei loro eguali diritti. La politica è l’arte di governare la convivenza in modo che questa fioritura diventi sempre meno impossibile a ciascuno e a tutti. Dunque la sua autonomia è legata alla sua natura di mezzo e non di fine: come un’arma che bisogna saper maneggiare secondo le sue regole.

PROPRIO per questo il maneggio non può essere indifferente al fine, dunque alle condizioni per realizzarlo. Saper maneggiare la pistola (autonomia) non basta, bisogna maneggiarla a difesa della giustizia nella libertà (non indifferenza). Separate queste due cose e avrete i nostri mali: o la rapina della cosa pubblica (della ricchezza, del nutrimento, della disciplina, della verità e della libertà dovuti a ognuno per poter vivere da uomo libero e soggetto morale responsabile): ecco la banda B &B. Oppure la subordinazione del fine al mezzo, della buona politica alla logica degli apparati, all’autoriproduzione dei partiti e di tutte le altre consorterie. E se il maggior partito dell’opposizione non capisce questo, chi tradurrà in buona politica il risveglio delle coscienze?

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