GIORGIO AIRAUDO
Ogni dissoluzione comincia con una assoluzione. E’ successo con Silvio Berlusconi, rischia di accadere anche all’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, che invoca una legge “ad aziendam”, per difendersi dai tribunali. Ovvero: il berlusconismo del “nessuno mi può giudicare” fa scuola anche nelle relazioni sindacali e nei comportamenti delle imprese nei confronti della giustizia. Se ci pensate è curioso.
La Fiat e il suo amministratore delegato dopo aver detto che nulla volevano dal governo in Italia, tutto pretendevano dai lavoratori. Invece tanto hanno avuto, fatto e restituito in America. Ora chiedono una legge per evitare, influenzare o annullare un eventuale giudizio sfavorevole sulla causa promossa dalla Fiom-Ccgil a Torino, la cui prima udienza si è tenuta ieri (e il tribunale ha respinto la richiesta di Fiat di spostare il processo altrove). Una causa che ha uno scopo: accertare se
Si usa la crisi per dire che non ci possiamo permettere, se vogliamo il lavoro in Italia, i diritti e le libertà che abbiamo fino ad oggi esercitato. Si chiede per le imprese un extraterritorialità giudiziaria: una bella differenza di diritto rispetto ai cittadini che quando lavorano devono perdere la loro soggettività e cittadinanza e diventare merci tra le merci.
Colpisce che la tanto esaltata innovazione, la volontà di scongelare e far muovere il paese, partita con la “coraggiosa” aggressione da Pomigliano alla Bertone a chi guadagna 1200 € al mese (facendo i turni e pagando tutte le tasse), finisca nel chiedere un “favore” al berlusconismo decadente e ai suoi ministri che perseguono nostalgie tardo-craxiane di costruzioni di sindacati riformisti.
In fondo, oggi, sarebbe sufficiente un sindacato integralmente democratico e autonomo che faccia decidere i suoi rappresentati e che lasci alle lavoratrici e ai lavoratori eleggere i propri rappresentanti (nelle newco Fiat non si eleggono i delegati, nominati dai sindacati firmatari). Chissà se nell’entourage di Marchionne è stato valutato attentamente il rischio di un accostamento tra
E allora forse c’è da chiedersi se lo scontro vale i rischi e i prezzi che stanno ad oggi pagando soprattutto i lavoratori e le lavoratrici con tanta cassa integrazione. E che rischia di pagare l’intero paese non avendo certezza sul futuro dell’auto in Italia. Forse
La Fiat, invece che alimentare lo scontro uscendo dai contratti nazionali e da Confindustria (trattando i lavoratori da ostaggi), si dovrebbe assumere la responsabilità di un cambio di linea. Nel rispetto dei diritti del lavoro e di questo Paese, riconosca il contributo degli italiani nell’azienda. Meglio un buon patto sociale che il bacio della morte “ad aziendam” del Cavaliere.
Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2011
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