sabato 2 luglio 2011

Il bacio della morte di Berlusconi a Marchionne

GIORGIO AIRAUDO

Ogni dissoluzione comincia con una assoluzione. E’ successo con Silvio Berlusconi, rischia di accadere anche all’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, che invoca una legge “ad aziendam”, per difendersi dai tribunali. Ovvero: il berlusconismo del “nessuno mi può giudicare” fa scuola anche nelle relazioni sindacali e nei comportamenti delle imprese nei confronti della giustizia. Se ci pensate è curioso.

La Fiat e il suo amministratore delegato dopo aver detto che nulla volevano dal governo in Italia, tutto pretendevano dai lavoratori. Invece tanto hanno avuto, fatto e restituito in America. Ora chiedono una legge per evitare, influenzare o annullare un eventuale giudizio sfavorevole sulla causa promossa dalla Fiom-Ccgil a Torino, la cui prima udienza si è tenuta ieri (e il tribunale ha respinto la richiesta di Fiat di spostare il processo altrove). Una causa che ha uno scopo: accertare se la Newco di Pomigliano sia un trasferimento di ramo d’impresa. Se fosse così non potrebbe essere utilizzata per cambiare contratti, condizioni di lavoro, diritti e libertà individuali e collettive o per scegliersi i sindacati più aderenti o disponibili alle intenzioni dell’impresa.

Si usa la crisi per dire che non ci possiamo permettere, se vogliamo il lavoro in Italia, i diritti e le libertà che abbiamo fino ad oggi esercitato. Si chiede per le imprese un extraterritorialità giudiziaria: una bella differenza di diritto rispetto ai cittadini che quando lavorano devono perdere la loro soggettività e cittadinanza e diventare merci tra le merci.

Colpisce che la tanto esaltata innovazione, la volontà di scongelare e far muovere il paese, partita con la “coraggiosa” aggressione da Pomigliano alla Bertone a chi guadagna 1200 € al mese (facendo i turni e pagando tutte le tasse), finisca nel chiedere un “favore” al berlusconismo decadente e ai suoi ministri che perseguono nostalgie tardo-craxiane di costruzioni di sindacati riformisti.

In fondo, oggi, sarebbe sufficiente un sindacato integralmente democratico e autonomo che faccia decidere i suoi rappresentati e che lasci alle lavoratrici e ai lavoratori eleggere i propri rappresentanti (nelle newco Fiat non si eleggono i delegati, nominati dai sindacati firmatari). Chissà se nell’entourage di Marchionne è stato valutato attentamente il rischio di un accostamento tra la Fiat e questa maggioranza al crepuscolo. C’è una strana assonanza tra chi parla di toghe rosse” e chi teme le “toghe in tuta blu”, con le equivalenti contestazioni di legittimità nel merito e nelle sedi delle cause.

E allora forse c’è da chiedersi se lo scontro vale i rischi e i prezzi che stanno ad oggi pagando soprattutto i lavoratori e le lavoratrici con tanta cassa integrazione. E che rischia di pagare l’intero paese non avendo certezza sul futuro dell’auto in Italia. Forse la Fiat avrebbe fatto meglio a dire tutto subito concordando un piano anche con il Paese e il governo, piuttosto che negare la crisi. Avrebbe potuto oggi avere una restituzione di prestiti in cambio di impegni come ha fatto Barack Obama. Questa sì che sarebbe stata una riforma liberale: imprese che restituiscono prestiti pubblici senza subire l’ umiliazione di quel “Paid” (pagato) appuntato sulle giacche dei manager.

La Fiat, invece che alimentare lo scontro uscendo dai contratti nazionali e da Confindustria (trattando i lavoratori da ostaggi), si dovrebbe assumere la responsabilità di un cambio di linea. Nel rispetto dei diritti del lavoro e di questo Paese, riconosca il contributo degli italiani nell’azienda. Meglio un buon patto sociale che il bacio della morte “ad aziendam” del Cavaliere.

Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2011

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