venerdì 1 luglio 2011

La direzione del coraggio

Non si è ancora visto in Italia un ministro tanto disponibile a proporre tagli al proprio ministero quanto solerte a indicare i presunti sprechi dei suoi colleghi. Giulio Tremonti lo ha sottolineato pubblicamente appena qualche giorno prima di sentirsi dare del matto da un collega di governo, sottosegretario alla Difesa (uno dei dicasteri più colpiti dall'austerità negli ultimi anni) nonché esponente del suo stesso partito. Circostanza che avrebbe avuto una sola conseguenza immediata, ovvero le dimissioni del sottosegretario, in qualunque altro Paese del mondo. Ma non in Italia. E questo la dice lunga sulla situazione paradossale in cui si sta dipanando la matassa della manovra.
Non serve certo la palla di vetro per farsi un'idea di che cosa sia passato nella mente dei nostri ministri investiti dai tanto deprecati «tagli lineari» nelle 48 ore intercorse fra la presentazione della manovra e la sua discussione a Palazzo Chigi.

In questi giorni sembra di rivedere le scene di un vecchio film proiettato esattamente sette anni fa sullo stesso schermo. Erano i primi giorni di luglio del 2004, Tremonti si trovava sotto assedio e con la scusa di quella parolina magica, «collegialità», fu costretto alle dimissioni. Certo, qualche differenza c'è. Allora chi pretese il suo scalpo era Gianfranco Fini. Oggi, nella maggioranza, sono molti di più. Il che rende l'aria intorno al ministro dell'Economia irrespirabile, come testimonia il trattamento che gli riservano i giornali vicini al centrodestra.

I nostalgici di quel luglio 2004 dovrebbero però ricordare anche ciò che avvenne quattro giorni dopo le dimissioni di Tremonti: Standard & Poor's declassò il debito pubblico italiano. Quella decisione dell'agenzia di rating venne allora rabbiosamente liquidata dal governo con un'alzata di spalle. Reazione adesso improponibile. Perché si dà il caso che ora l'Italia, a differenza di sette anni fa, stia attraversando un momento che richiama un'altra sconcertante analogia estiva. L'anno era il 1992 e il nostro Paese si trovava sull'orlo della crisi finanziaria con la speculazione internazionale scatenata contro la liretta. Un dettaglio che potrebbe trasformare quel copione del 2004, recitato oggi, nella tempesta perfetta.

Nella manovra ci sarebbero probabilmente molti ritocchi da fare. Anche se nella direzione del coraggio, dunque opposta a quella auspicata da molti ministri. Innanzitutto non ha torto chi nota come il peso più gravoso sia concentrato sul biennio 2013-2014. Perciò, scaricato su chi verrà dopo le prossime elezioni politiche. Tagli consistenti alla spesa pubblica corrente, poi, ancora non se ne vedono.

Ma non è nemmeno lontanamente immaginabile ciò che potrebbe accadere sui mercati nel caso in cui Tremonti, l'uomo che in questo governo ha la maggiore credibilità internazionale, venisse messo alla porta e la sua Finanziaria fatta a pezzi per banali questioni di orticello. Peggio ancora, per salvare qualche misero privilegio. Altrettanto chiaramente va detto che la manovra non può nemmeno diventare terreno di regolamenti di conti politici (e personali) senza nessun legame con l'interesse collettivo. Chi tiene sotto controllo con apprensione i mercati in questi giorni sa che 100 punti di divario nel cosiddetto spread fra i rendimenti dei bund tedeschi e dei nostri titoli di Stato ci costano 16 miliardi l'anno. E che gli speculatori sono in agguato. Allora sì, che saranno dolori: per noi ma anche per l'euro. Perché l'Italia, con tutto il rispetto, non è la Grecia.

Sergio Rizzo
30 giugno 2011

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