lunedì 18 luglio 2011

Rassegnati alle troppe tasse

LUCA RICOLFI

Quella che si apre oggi è una settimana importante per valutare le prospettive dell’Italia dopo la manovra-lampo approvata nei giorni scorsi. Non è detto che i mercati siano i migliori giudici della bontà delle nostre politiche, ma non v’è dubbio che - finché le utopie di chi sogna istituzioni economiche europee funzionanti non si saranno realizzate - è con i mercati che dovremo fare i conti.

Le previsioni degli osservatori, in proposito, non sono particolarmente ottimistiche. La manovra allestita in fretta e furia dal governo, e «responsabilmente» lasciata passare in tempi rapidissimi dalle opposizioni, non è piaciuta innanzitutto per la sua iniquità, ossia per la sua incapacità di distribuire in modo razionale e selettivo i sacrifici richiesti, con l’aggravante di avere ridotto al minimo quelli richiesti alla casta dei politici, un vero e proprio schiaffo in faccia ai cittadini. Ma non è piaciuta nemmeno sotto il profilo della sua capacità di calmare i mercati e rassicurare gli investitori, ricostituendo un po’ di fiducia nel sistema Italia.

Quasi tutti gli analisti hanno individuato tre punti deboli della manovra. Primo: è di entità risibile nel 2011-2012, mentre diventa draconiana solo nel 2013-2014, il che significa che i suoi effetti certi sono minimi, mentre gli effetti significativi non sono certi (gli impegni del 2013-2014 molto difficilmente potranno essere onorati, visto che non si sa nemmeno chi dovrà farlo: dalla fine del 2012 saremo in campagna elettorale). Secondo: una componente della manovra, quella fiscale, non solo è spostata avanti nel tempo, ma è di contenuto sconosciuto, in quanto affidata a una delega fiscale. Terzo: la manovra è troppo incisiva dal lato delle entrate (tasse), e lo è troppo poco dal lato delle uscite (spesa pubblica).

Di qui il timore che la manovra ottenga il doppio effetto di non convincere i mercati, con conseguente innalzamento del costo del nostro debito pubblico, e di azzoppare l’economia, già sufficientemente in difficoltà prima della manovra. Non sono particolarmente ottimista sulla reazione dei mercati, che non mi paiono così ingenui da non accorgersi del bluff di un pacchetto inflazionato di semplici intenzioni future. E’ questa preoccupazione che ha indotto non pochi osservatori, anche di sinistra come Eugenio Scalfari, a invocare un significativo anticipo di sacrifici al 2011-2012.

Quanto al rischio che la manovra soffochi del tutto la crescita il mio pessimismo è invece totale, e discende da un fatto (incontestabile) e da un’opinione, ovviamente discutibilissima. Il fatto è che nessun Paese sviluppato ha una pressione fiscale sui produttori alta come la nostra (il Total Tax Rate è al 68,6%), una circostanza aggravata dagli elevatissimi costi dell’energia e dalla doppia zavorra degli adempimenti burocratici e dell’inefficienza della giustizia civile. L’opinione (discutibile, ma supportata da qualche evidenza empirica) è che il fardello che un Paese impone ai produttori lavoratori e imprese - sia di gran lunga la causa più importante del suo ristagno. Molto, ma molto più importante di tutti gli altri fattori che - sotto la voce riforme mancate vengono ritualmente elencati, e da cui a mio parere ci si aspetta troppo.

Vista da questa angolatura, quella della permanente mortificazione di chi produce ricchezza, la storia delle ultime settimane è semplicemente agghiacciante. Ancora a giugno si dibatteva di riduzione della pressione fiscale, di un possibile ritorno del Pdl allo spirito originario del 1994. Poi si è cominciato a dire che la pressione fiscale non poteva scendere, ma che si poteva redistribuire il carico, spostandolo dalle persone (Irpef) alle cose (Iva), con ben poca attenzione al fatto che la crescita non dipende genericamente dalle «persone» ma da chi genera ricchezza, ossia lavoratori e imprese. E infine, nei giorni scorsi, ci si è arresi al fatto che le tasse non solo non potranno essere diminuite, ma dovranno salire. Nel giro di un mese un micidiale 1-2-3 si è abbattuto sulle prospettive dell’economia italiana, di cui - a me sembra - si continua a sottovalutare il problema centrale: a queste condizioni ci vuole una dose spropositata di coraggio per operare in Italia, come del resto mostra al di là di ogni ragionevole dubbio il livello risibile degli investimenti diretti dall’estero.

Ed è sorprendente, almeno ai miei occhi, che una tale sottovalutazione della crucialità del problema delle tasse, e della drammaticità della situazione di chi cerca di stare sul mercato, non provenga solo dagli attori da cui ce lo aspettiamo, ossia sinistra, sindacati, pubblico impiego, ma anche da settori importanti dell’accademia e del mondo economico-finanziario. Io leggo tutti i giorni «Il Sole - 24 Ore», quotidiano vicino al mondo delle imprese, e sono perennemente stupito dalla profluvio di discorsi, inviti e ammonimenti a «fare le riforme» e dalla relativa rarità delle richieste di ridurre significativamente la pressione fiscale, quasi che uno strano cocktail di rassegnazione e senso di responsabilità nazionale avesse convinto gli stati maggiori dell’economia italiana che, per ora, su quel fronte nulla è possibile. E quando leggo che, di fronte a una manovra tutta sbilanciata dal lato delle entrate, la presidente degli industriali dichiara «abbiamo l’impressione che ci possa essere un aumento delle tasse», irresistibile mi si accende nella mente l’immagine di Titti, il canarino perennemente inseguito da Gatto Silvestro, che dice «oh, oh, mi è semblato di vedele un gatto».

Insomma, la mia sensazione è che spesso anche chi fatica, compete, e si batte ogni giorno per non far affondare la barca sia ormai da molti anni assuefatto a questo ceto politico, a questo Stato, e non percepisca fino in fondo il tasso di eroismo che oggi è richiesto in Italia a chi intende lavorare e produrre nella legalità, senza scorciatoie e protezioni politiche. Né mi sembra si possa escludere che la severità dei mercati nei confronti dell’Italia abbia anche qui una delle sue radici. Pensare che il debito pubblico si possa abbattere senza crescita, semplicemente azzerando il deficit, è già alquanto azzardato, ma pensare che la crescita possa ripartire con questo livello di pressione fiscale sui produttori lo è forse ancora di più. C’è solo da augurarsi che questa non sia la visione dei mercati, perché se lo fosse ben presto l’Italia potrebbe ritrovarsi nella tempesta.

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