martedì 16 agosto 2011

L'apparente declino dell'America


ENZO BETTIZA

Dopo gli implacabili giorni neri in Borsa e la pagina nerissima dell’estenuante trattativa sul debito pubblico tra repubblicani e democratici, aggravati dalla dura stangata inflitta da Standard&Poor’s all’amministrazione Obama, diversi osservatori hanno cominciato a parlare in termini allarmati del crepuscolo a cui starebbero avviandosi gli Stati Uniti. Hanno puntato il dito sullo spettro apocalittico del «default», che ha battuto colpi sinistri alle porte della Casa Bianca e del Congresso. Vi hanno visto una sorta di preannuncio macabro dell’abisso con partecipazione, sul fondale, di altre astrazioni opache e non meno fantomatiche: società di rating inaffidabili, hedge funds enigmatici, banche ombra misteriose e così via.

Ma ciò che impressiona, di queste analisi negative, non è solo l’indicazione delle inarrestabili conseguenze di una crisi a scadenza ignota, innescata fin dal 2008 dalle due maggiori piazze finanziarie del mondo, Wall Street e la City di Londra. Impressiona ancor più un certo pessimismo generalizzato che sembra riecheggiare, in versione aggiornata, le vecchie profezie spengleriane sul tramonto dell’Occidente. Un pessimismo autolesionista, tous azimuts. Il quale, andando al di là del dissesto economico, finisce con l’appannare l’immagine politica, militare, sociale, culturale dell’America in quanto tale: Paese guida dell’Occidente e, almeno fino all’altroieri, anche modello di riferimento paradigmatico per emergenti potenze non occidentali come Cina e India o non anglosassoni come il Brasile.

In questi giorni è facile arrivare alla frettolosa conclusione che gli Stati Uniti si trovano in un disastroso vicolo cieco e che non potranno più continuare a considerarsi e comportarsi come la prima superpotenza del mondo.

Detto questo, dovremmo però separare una concreta realtà storica, il continente nordamericano nella sua contraddittoria complessità, dall’immagine offuscata che oggi proietta di sé «la Repubblica imperiale» come la definiva Aron. Ai valori finanziari in caduta libera dagli altari di Wall Street ha corrisposto, indubbiamente, una forte caduta dei valori d’immagine, direi ideologici, della tradizione idealista cara all’America anglosassone.

I segni particolari e gli impulsi interventisti di tale anglosassonità s’erano rivelati con energia crescente, sul piano planetario, durante e dopo le due guerre mondiali. Prima con i famosi «14 punti» di Wilson, quindi con Roosevelt in stretta alleanza con l’Inghilterra assediata dai tedeschi, infine con Truman e col supporto dell’Europa occidentale, ricostruita dal Piano Marshall e integrata nella Nato, l’America era diventata portatrice e la garante globale di quel retaggio etico di fondo protestante che doveva distinguerla anche nella Guerra fredda contro l’espansionismo sovietico.

I rigori bellici e postbellici con risvolto umanitario, promossi in campo internazionale, dovevano prolungarsi per tre quarti di secolo: dalla wilsoniana autodeterminazione dei popoli al ponte aereo per il salvataggio di Berlino, fino all’intervento di Clinton contro la Serbia a favore degli albanesi del Kosovo. Perfino gli interventi armati più discussi - il Vietnam di Kennedy e Johnson, i due Iraq di Bush padre e figlio, l’eterno Afghanistan pesantemente ereditato da Barack Obama - si sono svolti bene o male, talora in maniera manichea, all’insegna comunque dei valori anglosassoni in difesa della democrazia e della liberazione degli oppressi. Ma l’America odierna, l’America neo-isolazionista di Obama, dà l’impressione di una graduale ritirata dalla grande politica estera, affidando quel che ne resta ai droni senza pilota e ad isolate e spettacolari azioni punitive come l’uccisione di Bin Laden.

Lo smalto scrostato o, peggio, il sospetto d’abbandono da parte dell’America dei suoi tradizionali valori morali non è una buona notizia per i maggiori Paesi europei in difficoltà, che stanno perdendo sempre più di vista l’altra sponda atlantica, a cominciare dalla cugina Inghilterra. Non lo è nemmeno per l’Occidente nel suo composito allargamento postcomunista, né per quella parte occidentalizzata e sofferente del globo, come il Giappone, che nella diffusa onnipresenza americana vedeva una rassicurante protezione strategica e uno stimolo emulativo per i settori avanzati della tecnica e dell’economia.

La delusione, accompagnata da una sensazione di vuoto e di smarrimento esistenziale, s’è fatta sentire con forza ovviamente più intensa e angosciata in America che altrove. Certi valori domestici più solidaristi, anch’essi a loro modo d’impronta anglosassone, rooseveltiana e keynesiana, stroncati come «socialisti» dai predicatori vetero-puritani del Tea Party, non sono stati realizzati che per un fluttuante decimo dal presidente Obama: egli ha deluso troppi americani che l’avevano votato, in tempi di grande crisi, intravedendo o stravedendo in lui un erede naturale del New Deal di Roosevelt. Il risanamento in extremis del capitalismo sfibrato, minacciato d’infarto dalla violenta depressione del 1929, risanamento operato da Roosevelt con un vasto programma di lavori pubblici e interventi di assistenza sociale, aveva finito per dimezzare la disoccupazione e produrre una sorprendente ripresa economica; era iniziata l’era moderna di un puritanesimo nuovo, più popolare, meno elitario, meno wasp: quella del Welfare anglosassone.

Con Obama purtroppo non s’è ripetuto il miracolo teorizzato da Keynes e attuato dal più grande presidente americano del secolo scorso. I cantieri per lavori pubblici si vedono qua e là, in diversi Stati, ma funzionano a rilento. La disoccupazione aumenta. La decantata assistenza sanitaria è da un pezzo bloccata. Quel che stenta malamente in piedi è soltanto un compromesso al ribasso dei parlamentari democratici, disprezzati dalla sinistra liberal, con quelli repubblicani, incalzati e ricattati dalla destra populista. Mai la classe politica americana era apparsa così lacerata, polarizzata, intossicata da simili rancori e rivalità personali; mai nelle vicende del Congresso i due partiti s’erano mostrati così incapaci di mobilitarsi, sulla nave in pericolo, attorno a un comandante che sembra vivere la tempesta più da spettatore che da combattente e pensare soprattutto alla propria rielezione nel novembre 2012.

Ma la realtà profonda del colosso a stelle e strisce, quella a cui molti osservatori costernati guardano oggi di meno, o solo superficialmente, è tuttavia diversa dall’immagine di declino che ci offrono i valori tradizionali più noti della storia e della mentalità americane. Vale la pena di citare, in proposito, un interessante articolo controcorrente che il politologo Moisés Naìm ha pubblicato sul «Sole - 24 Ore».

«La Borsa è crollata e ci saranno tagli che colpiranno il bilancio di settori importanti come le forze armate. Ma, anche così, il vantaggio di cui godono gli Stati Uniti sui propri rivali è talmente ampio da non far perdere al Paese la prima posizione. La sola flotta della guardia costiera possiede più mezzi navali di tutti quelli delle dodici marine da guerra più imponenti a livello mondiale». C’è poi l’incremento demografico, che negli Stati Uniti continua ad aumentare, mentre in quasi tutti i Paesi ricchi è in stallo o diminuisce. Inoltre la nazione di Obama seguita a essere la più potente calamita di talenti scientifici internazionali e a favorire la più rapida integrazione dei flussi migratori. Negli strati sempre mobili del ceto medio risparmiatore la vitalità e l’istinto di conservazione assumono forme spesso più incisive della disperazione.

Talora anche sorprendenti e direi perfino ossimoriche nella loro calcolata imprevedibilità: per esempio, chi avrebbe detto che, mentre dilaga il panico e le Borse crollano, la fame di titoli del Tesoro americano avrebbe superato tutti i record? Chi avrebbe immaginato che sarebbero andati a ruba, pur offrendo tassi minimi, proprio i titoli messi a disposizione da un governo la cui solvibilità viene posta in discussione dagli influenti indovini e giocolieri delle agenzie di rating? Neppure il declassamento del debito cosiddetto sovrano ha provocato una fuga di capitali. Coloro che conoscono il danaro, che sanno come maneggiarlo e dove collocarlo, non ne hanno tenuto minimamente conto. Il maggiore dei paradossi è che l’America, data da molti sull’orlo del baratro, continui nonostante tutto a rappresentare uno dei porti finanziari più sicuri e affidabili.

Luci e ombre s’intrecciano e s’accompagnano a questo apparente tramonto spengleriano della superpotenza, ferita sì nell’immagine, ma ancora resistente nelle sue più profonde radici biologiche. Non è certo la prima volta che il gigante si presenta al mondo con un volto malato e febbricitante. Ma ce ne vuole a darlo già per spacciato o soltanto degradato al secondo o terzo posto, dopo la Cina, nel gran concerto della globalizzazione.

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