martedì 20 settembre 2011

IL FEROCE TRAMONTO DI SILVIO ASSEDIATO


Dai dioscuri a Confindustria, il consenso si sgretola

di Luca Telese

Assediato in casa, chiuso nel bunker, braccato: povero Silvio. Guardi sovrapporsi sullo schermo della serata informativa del Tg1 il faccione solare e tonitruante di Giuliano Ferrara e i tentativi di lettura del gobbo, tentati dal diafano Augusto Minzolini. Ferrara è pirotecnico, Minzolini sempre accompagnato da un che di vagamente dislessico. Ferrara chiama alla battaglia per la difesa del voto popolare con la lingua fluente e gli occhiali inforcati per recitare Lincoln; Minzolini è lugubre, con gli occhi in giù, la fronte corrugata, e le parole che si sfarinano in bocca, assieme agli enjambement stentati di una lettura da dettato di scuole elementari. Guardi Minzolini e Ferrara, nella loro stupefacente complementarità, come i riservisti mandati al fronte a fine battaglia. Capisci che i due editoriali sono scritti con la carta carbone del mantra rassicurante: “Berlusconi non si deve dimettere”. Li guardi, in questa fine epoca catodica. E capisci che le due interpretazioni divergenti si annullano al grado zero.

Squilli di disfatta

Un tempo gli editoriali sparati dalle corazzate orientavano le masse a difesa del leader, come dei manzoniani squilli di tromba: adesso sembrano accompagnare la sua disfatta con il contrappunto dell’adrenalina e rendere visibile il suo accerchiamento. Il premier è solo, gli manca l’aria. Il voto sull’autorizzazione a procedere di Marco Milanese trasformerà ancora una volta Montecitorio in una roulette russa al cardiopalma, in cui il tamburo gira con un colpo in canna. Guardi anche quello che nessun tg riesce più a occultare. C’è un sindaco del nord che dice: “Se passa questa manovra il governo porterà i comuni al fallimento”. Non è un primo cittadino del Pd, ma il sindaco di Verona Flavio Tosi. C’è un altro uomo in fascia tricolore che grida: “Roma è in pericolo, è un errore se Berlusconi si ricandida!”. Non si tratta di Walter Veltroni o di Francesco Rutelli, ma di Gianni Alemanno. C’è un presidente di Regione con i capelli brizzolati che si indigna: “Così non va, con queste risorse saremo costretti a tagliare i servizi per giovani e anziani”. E chi è, Vasco Errani? Macché, è Roberto Formigoni, un altro che ha già archiviato l’era del Cavaliere. C’è un importante banchiere che dice: “Attenzione, non c’è da scherzare: per l’Italia c’è un rischio default”. Eppure non è il banchiere prediletto della Quercia, Giovanni Consorte, ma l’amministratore delegato del più importante istituto di credito italiano, Corrado Passera (numero uno di Banca Intesa SanPaolo). C’è una donna che grida: “È stata minata la credibilità dell’Italia!”. E non è mica Susanna Camusso, né una dama con palloncino rosa del comitato di “Se non ora quando”, ma la confindustriale Emma Marcegaglia.

Pezzo a pezzo

Poi ci sono i giornali internazionali (tutti), poi ci sono le procure che vogliono processare il premier e quelle che lo vogliono ascoltare come testimone (e lui deve rifuggire da entrambe). Poi il processo Mills che ritorna incombente perché il collegio ha accettato di tagliare i testimoni superflui, vanificando la grottesca controriforma de “il processo lungo”. Curiosa beffa: promulgare una legge che compromette mezzo milione di processi, per salvarne uno solo. E per giunta senza riuscirci. Ogni giorno che passa, in questo infinito, iridato e feroce tramonto dell’età azzurra, un frammento del blocco di consenso che costituiva il cuore del berlusconismo si sgretola. C’è la Banca d’Italia che rifà i conti con la matita rossa e blu, c’è la Banca centrale europea che detta ultimatum via lettera, ci sono alleati pulviscolari che pongono veti, c’è Umberto Bossi che proclama per l’ennesima volta la fine dello Stato nazione (il fatto che sia una panzana non diminuisce la gravità e la comicità dei vaniloqui secessionistici), e ci sono i dioscuri di un tempo, oggi annichiliti. Il sorriso da faina di Denis Verdini, che fu spacciato per l’emblema di un banchiere mediceo, e per l’orgoglio di un solido capo di partito, è tornato il ghigno un ex macellaio prestato alla politica. L’eminenza cotonata di Gianni Letta, che fu celebrata come il vessillo di un illuminato di Palazzo, e tornata oggi invisibile; l’eroe dei due mondi Guido Bertolaso si è tolto il maglioncino inutilmente a girocollo, ha finito di dare lezioni agli Usa, e si è accoccolato nel silenzio delle proprie strategie difensive. L’iracondia dentata di Renato Brunetta prima raccoglieva solo applausi, adesso catalizza solo pernacchie. Il ciuffo bianco di Giulio Tremonti ieri si era ammantato di carisma profetico, quando il suo best-seller da aspirante sciamano, La paura e la speranza, scalava le classifiche. Adesso la speranza si è spenta nel balbettio delle paghette versate a Milanese per pagare appartamenti con soffitti affrescati. È rimasta solo la paura.

Profondo bunker

Finire braccato vuol dire correre da Giorgio Napolitano trafelato per annunciare un decreto risolutivo che il capo dello Stato non firmerà mai. Significa perdere il sonno per inseguire il segnatempo delle intercettazioni a orologeria, passare ore ad approntare inverosimili ricostruzioni difensive, significa vivere senza leggerezza, senza più sorrisi, senza il conforto delle guasconate che facevano incazzare mezza Italia e sognare l’altra. Adesso nessuno più sogna, nel bunker non si respira, il tono orgoglioso del ghe-pensi-mi si è virato nello spettro di una sopravvivenza commissariata a Palazzo Chigi. Povero Silvio. Quando tutto il senso di quello che hai voluto essere si dissolve nel suo contrario, la permanenza senza prospettiva diventa solo un doloroso male di vivere.

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