di Marco Travaglio
Sul sito dell’Espresso due cronisti coraggiosi, Claudio Pappaianni e Andrea Postiglione, raccontano con tanto di video
Palloncini, musica, applausi.
Poi i padrini invitano tutti a “un minuto di silenzio per i morti nostri”. Chiude la gaia cerimonia la benedizione del parroco.
Unica nota stonata, l’assenza delle autorità politiche, sempre meno radicate sul territorio (l’ennesima riprova della divaricazione tra Paese reale e Paese legale). O forse troppo impegnate a Roma.
Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Saverio Romano da Belmonte Mezzagno (Palermo), deputato dal 2001, prima nell’Udc e ora nei Responsabili, fedelissimo di Totò Cuffaro (attualmente detenuto per favoreggiamento mafioso), uno dei pochi parlamentari che nel 2002 non votarono la stabilizzazione del 41-bis, imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, si prepara all’ultima battaglia. Oggi infatti
Ma, per il primo ministro della storia d’Italia imputato per mafia, più che una battaglia sarà una passeggiata.
I cosiddetti padani della Lega Nord annunciano che voteranno per lui, contro chi lo vuole cacciare, anche perché difendono alcune centinaia di allevatori fuorilegge per le quote latte e le relative multe, e lui con loro.
Strepitosa la dichiarazione del ministro dell’Interno Bobo Maroni, che vanta un curriculum antimafia da paura e poi siede a ogni Consiglio dei ministri accanto al ministro imputato di mafia: “La mozione di sfiducia l’ha presentata l’opposizione, ne sono state presentate in passato e sono sempre state respinte. Non vedo francamente perché non si debba fare la stessa cosa”.
In effetti era stata respinta anche la mozione di sfiducia contro il sottosegretario Nicola Cosentino, imputato di camorra. Ergo, se in futuro si scoprisse che un ministro ha ammazzato la moglie o ha stuprato una bambina, Maroni se lo terrebbe al governo perché si è sempre fatto così. Un fatto di tradizione.
Il compianto Lunardi, a questo punto, fa la figura del minimalista. Si era limitato a dire che “con la mafia bisogna convivere”: una constatazione, viste le facce che popolavano e popolano il governo. Oggi, altro che convivere. La convivenza presupponeva una certa qual diversità, tra politica e mafia. Ora invece siamo all’identità, e non solo di linguaggio.
Più che mai opportuno, da questo punto di vista, il contributo del ministro gondoliere Brunetta, che ieri, in attesa del piano per la crescita, ha proposto l’eliminazione del certificato antimafia per “snellire” le procedure nella Pubblica amministrazione, con tanti saluti alle “anime belle dell’antimafia”. Come dargli torto. Se il certificato antimafia non si chiede nemmeno alle massime cariche dello Stato, né tantomeno ai politici, perché mai dovrebbero esibirlo gli imprenditori?
Renato Schifani, essendo indagato per mafia, non potrebbe concorrere a un appalto, ma può tranquillamente fare il presidente del Senato. Idem per il ministro Romano, per l’on. Cosentino e per il sen. Dell’Utri.
Snellire, semplificare per tutti, compresa la mafia, unica azienda italiana che non conosce crisi. Infatti il cardinal Bagnasco s’è ben guardato dal farvi cenno, tra i “comportamenti licenziosi, tristi e vacui che ammorbano l’aria”. Pazienza la mafia, ma la gnocca no! Già allo studio un emendamento al primo articolo della riforma prostituzionale che potrebbe incontrare i favori dei teocon del Pdl e anche dell’Udc: invece di “la patonza deve girare”, “la mafia deve girare”.
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