«Appuntato Gheddafi, aaattenti!». Francesco Cossiga ci rideva su e giurava che nel passato del Raìs ci fosse non solo una mamma che forse era ebrea ma un papà che aveva vestito la divisa dei carabinieri. Il presidente un giorno raccontò di aver portato lui stesso l’amico Muammar a vedere, tra il confine tunisino e Tripoli, «la casermetta di Zuara dove suo padre, sottufficiale dell’Arma, aveva prestato servizio». Vero? Falso? Certo è che nessuno quanto Gheddafi è stato per gli italiani «il tiranno della porta accanto ». Italiana era la mina che, scoppiata quando era piccolo, gli uccise due cugini e lasciò a lui una cicatrice al braccio. Italiani erano i ventimila coloni che cacciò dal Paese nel luglio del 1970. Italiani i nemici odiati e incolpati di tutti i crimini commessi dai fascisti e dal maresciallo Rodolfo Graziani contro i quali proclamò la «Giornata della vendetta» scegliendo il 24 ottobre, anniversario della strage del
E ancora italiane le hostess che un paio di volte, durante le passerelle romane del dittatore, furono reclutate con annunci surreali: «Cercansi 500 ragazze piacevoli, tra i 18 e i 35 anni, alte almeno un metro e 70, ben vestite ma rigorosamente non in minigonna o scollate». Gettone di presenza: 60 euro. Incarico: accettare il dono di un Corano e ascoltare una omelia del dittatore che nel novembre del 2009 donò alle fanciulle, una delle quali uscì dal consesso rivelando ai giornalisti d’essere istantaneamente diventata maomettana («che, m’a fate ’na foto? »), indimenticabili chicche come questa: «Gesù non fu crocefisso: crocefissero al suo posto uno che gli somigliava». E non c’era semestre in cui il Colonnello non ricevesse la visita di un premier di destra o di sinistra, un ministro, un sottosegretario, o una delegazione o un giornalista. Come Oriana Fallaci, che a metà degli anni Ottanta, dopo tre ore e mezzo di attesa a Bab el Azizia davanti a una «biblioteca tappezzata principalmente di "Who’s who"» piantò una grana delle sue per «fare la pipì» e si ritrovò con «un cerchio di kalashnikov puntati contro lo stomaco» e si vendicò scrivendo peste e corna («oltre ad essere un tiranno è un gran villanzone» dalle «labbra maligne e portate al sorrisino compiaciuto, di chi è molto soddisfatto di sé perché oltre a sapersi importante, potente, si crede anche bello») di quell’ospite bollato nei suoi ricordi come «senz’altro il più cretino di tutti». Per non dire del racconto di Ilaria D’Amico che, a dispetto della bellezza mediterranea, fu fatta aspettare per cinque ore e infine accolta tra dense nuvole d’incenso che forse sarebbero piaciute a Salomè ma costrinsero lei, allergica, a fuggire in cerca d’aria tra le risate delle guardie del corpo. O del meraviglioso ricordo conservato da Adriano Sofri, lui pure ospite anni fa con una delegazione: «Solo una volta Gheddafi, sotto la tenda di Bab-el-Azizia, fu all’altezza del desiderio di esotismo desertico dei viaggiatori nordici: successe che, mentre parlava, uno scarafaggio venne fuori dalla sabbia e avanzò lentamente ma sicuramente lungo il tappeto verso la sua scrivania.
Quando fu arrivato alla sua portata, Gheddafi tolse un piede dallo zoccolo in cui era infilato, afferrò con le dita del piede l’animaletto, senza neanche abbassare gli occhi, e lo gettò da una parte, dove poté tornare a insabbiarsi». Un’immagine che mesi fa, mentre infuriava la guerra, Sofri rievocò auspicando che anche al Raìs fosse riservato un destino simile. Una rimozione non cruenta. Perché si seppellisse nella sabbia. Fatto sta che per anni e anni, dall’acquisto delle quote Fiat nel periodo più duro della casa torinese all’irruzione del figlio Saadi, capricciosamente deciso a giocare a calcio (a sue spese) nel «campionato più bello del mondo» dopo essere stato attaccante, capitano e presidente della squadra Al Ittihad, Muammar e i suoi viziatissimi figli sono stati una presenza fissa nella nostra vita. Al punto che, ricordò un giorno Filippo Ceccarelli, «si è autocandidato al Quirinale, ha offerto di salvare Venezia, si è proposto di pagare gli avvocati ad Andreotti e di acquistare le quote latte per far cessare le proteste degli allevatori». Senza dimenticare la distribuzione di migliaia di videocassette con l’edizione integrale del suo «Libretto verde». E la stralunata lezione di «democrazia» alla Sapienza di Roma dove, dopo avere fatto aspettare per ore tutti i convenuti, spiegò indifferente a ogni etimologia greca, tra i salamelecchi del rettore Luigi Frati, che «la democrazia è una parola araba che è stata letta in latino. Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie». Spiegò la sua idea, davanti ad un mucchio di autorità in muto ma sorridente imbarazzo, anche in Campidoglio: «Il partitismo è un aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo italiano io gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l’unità di tutti gli italiani. Non ci sarebbe più destra e sinistra. Il popolo eserciterebbe il potere direttamente ». E aggiunse ridendo: «Non c’è nulla in contrario se l’amico Berlusconi si presentasse per diventare il presidente del governo libico. Il popolo libico sicuramente ne trarrebbe vantaggio. Potrebbe trasferire delle fabbriche e aziende agricole così
Del resto, il Colonnello l’aveva detto già nel 1994: «Io e lui siamo fatti per intenderci, in quanto rivoluzionari. Prevedo per lui grandi successi nella gestione dello Stato, così com’è stato nella gestione del Milan. La sua personalità è apparsa all’orizzonte cambiando tutto da cima a fondo». Il Cavaliere sorrideva. Lasciandosi immortalare impettito con l’amico in mezzo ai cavalli berberi. Su giganteschi manifesti incollati su tutti i muri tripolitani. Perfino in un francobollo celebrativo della rivoluzione. Fino al celebre bacio della mano che sarebbe finito su tutti i telegiornali del pianeta, da Santiago del Cile all’isola di Hokkaido. Uno slancio così compromettente (una sviolinata tra le tante: «Gheddafi è un grande amico mio e dell’Italia. È il leader della libertà») da costringerlo successivamente a una rara autocritica: «Ho un forte carattere guascone, che qualche volta mi porta in modo spontaneo a comportamenti non strettamente conformi alla forma». E poi c’erano i figli che affittavano ville megagalattiche in costa Smeralda e spendevano diecimila euro a sera a Cala di volpe e si sistemavano nei dintorni di Udine a villa Miotti di Tricesimo al modico canone di 13 mila euro al mese e spalancavano buchi clamorosi negli alberghi più di lusso lasciando detto al portiere «fatevi pagare dall’ambasciata». Fino ai capricci più assurdi, come l’ordinazione alla «Tesco Ts» di Torino, specializzata in fuoriserie, di un’auto disegnata da lui medesimo, Muammar, chiamata «The Rocket», il razzo. Grati di tanto onore, i costruttori descrissero i due prototipi con parole di ossequio e le lettere maiuscole al posto giusto: «Durante la realizzazione di questa macchina, l’équipe tecnica di Tesco TS ha seguito alla lettera le idee del designer, il Leader, per produrre la vettura perfetta secondo la sua visione». Perfetta in che senso? Una fuoriserie deve essere una fuoriserie. Non bastavano le leghe ultraleggere e i materiali avveniristici. Marmo: le rifiniture dovevano essere di marmo! Tutte cose che hanno contribuito, probabilmente, all’agghiacciante scempio compiuto ieri sul suo corpo. Una fine che, nella sua arroganza, il Colonnello aveva però messo nel conto. O almeno così pare a rileggere quelle parole scritte dal tiranno stesso nel racconto «Fuga all’inferno e altre storie» del 1990 edito in Italia da manifestoLibri: «Amo le masse e le temo, proprio come amo e temo il mio stesso padre. Nel momento della gioia, di quanta devozione sono capaci! E come abbracciano alcuni dei loro figli! Hanno sostenuto Annibale, Pericle, Savonarola, Danton, Robespierre, Mussolini, Nixon e quanta crudeltà hanno poi dimostrato nel momento dell’ira».
Gian Antonio Stella
21 ottobre 2011
Nessun commento:
Posta un commento