sabato 1 ottobre 2011

I dieci anni sprecati da B.


di Orazio Carabini

Ecco tutte le riforme che avrebbero salvato l'Italia dalla retrocessione in serie B. E adesso tutti gli italiani pagheranno il conto

(23 settembre 2011)

Un decennio perduto. Come quello del Giappone che tra il 1990 e il 2000 ha vissuto una prolungata fase di stagnazione economica. L'Italia berlusconiana sarà ricordata così nei libri di storia e nelle statistiche economiche: dieci anni sprecati per la crescita, l'occupazione, l'aggiustamento dei conti pubblici, la costruzione di infrastrutture, il rafforzamento del sistema industriale. La "rivoluzione liberale" non c'è stata. E pazienza. Ma tra il 2001 e il 2011 è mancata la capacità di gestire l'economia sebbene la maggioranza avesse i numeri per imporre la sua volontà e il centrodestra abbia potuto governare a lungo per gli standard italiani: due intere legislature (se l'attuale arriverà alla scadenza naturale), con la sciagurata pausa del governo dell'Unione di Romano Prodi nel 2006-07.

In realtà la stabilità politica era ed è solo apparente. E non si è tradotta in fatti concreti. Gli avvertimenti si sono sprecati: organismi internazionali, agenzie di rating, Banca d'Italia ed economisti di varia formazione hanno spronato il governo a fare di più, a sfidare le corporazioni che bloccano lo sviluppo dell'economia italiana.

Ma le esortazioni non sono bastate. E l'immobilismo è prevalso. Se ne sono accorti gli investitori che questa estate, nell'ansia di trovare approdi sicuri per i loro capitali, hanno "scaricato" i titoli di Stato italiani. Con il risultato di far decollare i rendimenti e di costringere la Banca centrale europea (Bce) ad acquistare Btp per evitare che l'intera costruzione dell'euro saltasse per aria.

Spaventato dalla sanzione dei mercati il governo ha reagito con una manovra pesante: 54 miliardi, a regime nel 2013, che dovrebbero avvicinare il bilancio pubblico al pareggio. Ma c'è arrivato in modo confuso e pasticciato. Tanto che il miglioramento in termini di tassi d'interesse è stato modesto, quasi impercettibile. Mentre l'euro si avvicina al collasso a causa della Grecia. E così le preoccupazioni per un'economia ferma sono riprese.

La crescita che non c'è più
Se il Prodotto interno lordo (Pil) aumenta, tutto è più semplice: la gente trova lavoro, lo Stato incassa più tasse e spende meno in sussidi, le famiglie consumano di più, le imprese investono. Tra il 2001 e il 2010 il Pil italiano è aumentato poco o nulla (vedere grafico), perché le piccole variazioni all'insù sono state compensate dal tonfo all'ingiù del 2008 e soprattutto del 2009. "Secondo i nostri calcoli", osserva Luca Paolazzi, direttore del Centro studi della Confindustria, "il Pil pro capite italiano nel 2012 sarà uguale a quello del 1999 e inferiore del 7 per cento a quello del 2007. Ed è significativo il confronto con la media dell'Unione europea: mentre nel 1991 il Pil pro capite italiano era il 106 per cento, nel 2007 era il 99 per cento e nel 2012 scenderà al 93 per cento".

Perché l'Italia non cresce? L'elenco dei motivi è lunghissimo: tasse elevate, tanta burocrazia, poca ricerca, molta corruzione, malavita diffusa. In un recente studio (Global innovation index) predisposto dall'Insead, una prestigiosa scuola di management francese, l'Italia si colloca al 35esimo posto su 129 Paesi nella classifica compilata in base a una serie di indicatori che misurano l'idoneità dell'ambiente all'innovazione e allo sviluppo economico. Non c'è da stupirsi, quindi, che gli stranieri investano poco da noi. Lo ricorda anche Standard & Poor's nel rapporto con cui ha spiegato il declassamento dell'Italia: gli investimenti diretti esteri in Italia sono solo il 16 per cento del Pil contro il 43 della Spagna, il 36 della Francia e il 27 della Germania. "E questo è un problema serio per l'Italia", dice sempre Romano Prodi quando parla da economista industriale, "perché il progresso va avanti con gli investimenti incrociati".

Non è un Paese per giovani
Nell'Italia che non cresce trovare lavoro è sempre più difficile. Soprattutto per i giovani. Dalle statistiche risulta che il tasso di disoccupazione non è alto, anzi è più basso che in molti altri Paesi europei. E' un dato positivo, non c'è dubbio, ma è anche parzialmente fuorviante. Quello che conta per misurare quanto la gente ha accesso al mercato del lavoro è il tasso di occupazione. Ovvero il rapporto tra occupati e popolazione. Nella classe di età che va dai 15 ai 64 anni il tasso di occupazione è sceso dal 57,4 per cento del 2004 al 56,9 del 2010. E' migliorato per le femmine (da 45,2 a 46,1 per cento) ed è peggiorato per i maschi (da 69,7 a 67,7 per cento). Vuol dire che è cresciuto il numero delle persone che hanno perso il posto o che hanno rinunciato a cercare un lavoro. Proprio quando uno dei principali obiettivi della politica economica era un maggior coinvolgimento della popolazione nella fase produttiva.

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