IN SETTE SI SONO TOLTI
di Silvia D’Onghia
Quando hanno aperto la cella/ era già tardi perché/ con una corda al collo/ freddo pendeva Michè”. Nel 1961 una ballata di Fabrizio De André raccontava in musica il suicidio in carcere di un detenuto, condannato a 20 anni per l’omicidio di chi “voleva rubargli Marì”. A cinquant’anni di distanza, sono rimasti in pochi a occuparsi di chi si ammazza dietro le sbarre. E quasi nessuno ricorda che a farla finita sono anche quelle persone che negli istituti lavorano.
Luigi è l’ultimo dei sette poliziotti penitenziari che si sono suicidati nel 2011. Lavorava nel reparto colloqui del carcere di Avellino, si è impiccato ieri mattina nella sua casa di Battipaglia. Aveva 46 anni, una moglie e un figlio piccolo. Immune da provvedimenti disciplinari, da qualche giorno era in congedo ordinario. Ne hanno dato notizia i sindacati della polizia penitenziaria. Altrimenti il nome di Luigi sarebbe rimasto sconosciuto anche alle agenzie di stampa.
IL PRIMO a togliersi la vita, il 9 aprile di quest’anno, è stato un assistente capo in servizio nel carcere di Mamone Lodè, nel nuorese. Si è ucciso con la pistola d’ordinanza nella sua casa di campagna. Il 12 aprile un assistente del penitenziario di Caltagirone, 38 anni, si è impiccato in contrada Stizza. Il 15 maggio si è sparato nel suo alloggio in caserma un ispettore viterbese. Giuseppe, assistente capo in servizio a Parma, si è impiccato il primo luglio dopo aver fatto rientro nella sua Cirò Marina, in Calabria. Il 7 settembre è stata la volta di un assistente delle Vallette di Torino, che ha premuto il grilletto all’interno del cimitero di Foglizzo. Stessa modalità, ma in casa, per un ispettore romano, che si è suicidato il 18 ottobre. E poi Luigi.
Nessuno può giudicare, entrare nel privato o additare questo o quel motivo per scelte così drammatiche. Ma forse sarebbe il caso di provare a capire se esiste un filo che lega questo alto numero di suicidi (si rischia di andare verso il pessimo record dei 10 nel ‘97 e ‘98). Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che si è detto “addolorato”, ha “immediatamente istituito una commissione che ha il mandato di studiare il fenomeno del suicidio tra il personale di Polizia Penitenziaria sia dal punto di vista quantitativo, con un esame comparato del fenomeno presso le altre Forze di Polizia, sia dal punto di vista qualitativo, per l’individuazione delle possibili cause dell’atto di suicidarsi”. Un’ipotesi di aiuto, in realtà, era nata già qualche anno fa, nel 2008, quando l’allora capo del Dap Ettore Ferrara pensò, anche su richiesta dei sindacati, di creare degli sportelli di ascolto all’interno delle carceri. Buoni propositi mai messi in pratica (eppure, per esempio, basterebbe affidare il servizio alle Asl, che già si occupano della salute dei detenuti). “L’amministrazione ha fatto orecchie da mercante – denuncia il segretario del Sappe, Donato Capece –. Non vorrei che anche le ultime affermazioni fossero di facciata. Invece è un allarme da non sottovalutare”. Secondo il sindacato, dal 2000 ad oggi i suicidi sono stati 100 (oltre a un direttore d’istituto e a un dirigente regionale). Cifra che l’amministrazione abbassa a 65, ma comunque un numero elevato.
I POLIZIOTTI penitenziari vivono in condizioni molto difficili. Le 2000 assunzioni previste dall’ex ministro Alfano nel Piano carceri non sono mai state fatte (le 1400 che si stanno pianificando erano già previste dal turn-over). Gli agenti sono costretti a turni pesanti e sono sempre a contatto con le libertà private (e con la disperazione) dei detenuti. “Non c’è un nesso diretto tra suicidio e lavoro – spiega il segretario della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno –, molto più probabilmente la consapevolezza di non poter assolvere al proprio mandato indebolisce chi è sulla border line della depressione. C’è una manifestazione di disagio legata alla non qualità del proprio lavoro”.
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