mercoledì 9 novembre 2011

Il licenziamento è un tabù. Anche per le imprese


Era facile predirlo. Dalla prima lettura della lettera italiana al Consiglio europeo, la settimana scorsa, vi avevamo avvertito che a infiammare sarebbe stato il capitolo riservato alla flessibilità dei licenziamenti privati e pubblici. È puntualmente avvenuto. L’atmosfera è diventata subito irrespirabile. Sindacati e opposizione ad accusare il governo di una vera e propria provocazione. Il ministro Maurizio Sacconi a spiegare che è vero il contrario. Sono le orecchie da mercante da un anno e mezzo riservate alla sua proposta di Statuto dei lavori a dimostrare che i conservatori stanno nell’altro campo, tra chi dimentica che a finire assassinato dalle Brigate rosse è stato chi ha cambiato le regole del lavoro per il meglio come Marco Biagi.

Ma perché in Italia è un tabù tanto intoccabile l’attuale disciplina dei licenziamenti? La risposta più recente alla domanda è venuta proprio mentre la polemica avvampava. All’Università di Milano, venerdì 28 novembre, in un seminario organizzato dalla Graduate school in social sciences, quella domanda è stata rivolta a Pietro Ichino. Ichino da stimato giuslavorista è diventato parlamentare del Pd e ha presentato una riforma globale in 64 articoli dell’intero codice del lavoro, oggi di migliaia di pagine. Non rappresenta la maggioranza del suo partito, la sua proposta l’hanno firmata in 54. Nel sindacato rosso sono in molti a considerarlo un corpo estraneo alla sinistra, troppo liberale e troppo «flessibile». Ma Ichino ne sa davvero e non si tira indietro.

Richiesto dunque del perché l’articolo 18 del datatissimo Statuto dei lavoratori resti intoccabile, ha risposto: «Il diritto e le condizioni del lavoro con ogni probabilità non diventeranno più flessibili nel futuro immediato a seguito di accordi collettivi. Questa predizione è basata sulla reazione durissima dei sindacati italiani alle novità richieste da Bce e Consiglio europeo. Non accetteranno modifiche né per i lavoratori già contrattualizzati né per i neoassunti. Su questa base, resterà ineffettiva la strada alla derogabilità contrattata dell’articolo 18 aperta dall’articolo 8 della manovra governativa. Perché i sindacati dicono no anche a una riforma per i soli neoassunti? Perché, se le nuove regole dovessero mostrarsi poi efficaci, allora anche gli insider tutelati dalle leggi attuali ne chiederebbero l’applicazione. E i sindacati, che vivono della rappresentanza della minoranza dei lavoratori italiani a cui oggi si applica l’articolo 18 e il pieno regime delle tutele, andrebbero in crisi. Il loro no è comprensibile. Un po’ egoistico. E di sicuro indifferente agli interessi delle nuove generazioni». Parole sue.

Se consideriamo il merito, l’accusa al governo è un classico della propaganda. Che siano stati gli organismi europei a chiederlo, compresi i licenziamenti pubblici violando l’altro totem del posto pubblico da noi a vita, non conta per la sinistra tranne che per Nichi Vendola. Il quale ha l’onestà di dire che la sinistra italiana deve infischiarsene e scrivere una controlettera che contesti l’Europa.

Quanto al merito della risposta italiana, fa propria la maggiore flessibilità in uscita ma la accompagna alla necessità di nuove tutele estese anche a chi oggi non le ha, tra cococo, cocopro e finte partite iva. Esattamente ciò che sinistra e sindacati imputano al governo di non voler fare, perseguendo invece il puro licenziamento come darwinismo sociale e favore agli interessi forti. Nel merito, è chiarissimo che in Europa l’Italia è fuori linea. Siamo in un altro mondo rispetto alla piena facoltà di licenziamento soggettivo e collettivo (tranne evidenti discriminazioni politiche, di religione o razza) delRegno Unito, dove tanto per i lavoratori privati che per i pubblici bastano al più 12 settimane di preavviso. Il licenziamento è impugnabile dal lavoratore e dai sindacati davanti alle corti, che rarissimamente decidono però per il reintegro, condannando al più i datori al pagamento del preavviso e a un massimo di 68 mila sterline. Flessibilità massima, cheDavid Cameron vuole per altro ulteriormente estendere.

Siamo distanti dal modello tedesco. È insieme flessibile (consentito il licenziamento collettivo per ragioni economiche), esteso a tutti i dipendenti sopra la soglia dei cinque per impresa e con almeno 6 mesi di lavoro, ma è contemporaneamente anche molto condiviso coi sindacati a livello di stabilimento. Le imprese pagano come indennità di licenziamento fino a 18 mesi di stipendio, più l’eventuale concordato aggiunto a livello d’impresa con i sindacati. Poi si passa alla copertura di disoccupazione riformata dai quattro pacchetti Hartz, sotto il governo Spdf guidato da Gerhard Schröder e poi negli anni di governo comune con Cdu-Csu.

Siamo lontani per fortuna dal modello francese, dove il licenziamento collettivo per ragioni economiche sopra i 50 dipendenti e con preavviso di 3 mesi diventa automaticamente un problema di stato. L’impresa che deve portare al giudice i suoi piani e dimostrargli l’impossibilità di procedere altrimenti, modificando orari o attraverso piani di solidarietà. Un sistema tanto statalista che spiega come mai nel settore privato francese il tasso di sindacalizzazione sia sceso a livelli inferiori di tre volte ai nostri.

Siamo ad anni luce dal modello scandinavo. È quello danese l’ispiratore della proposta Ichino. Riservata ai neoassunti in imprese sopra i 15 dipendenti, sottrae al giudice ogni potere tranne la pura ragione discriminatoria per convinzioni politiche, età, sesso o religione. Per il resto prevede che tutti i lavoratori siano a tempo indeterminato (tranne poche tipologie a tempo per stagionali e interinali) ma con una doppia tutela graduata a seconda della durata del proprio rapporto. L’impresa versa al licenziato un mese di retribuzione per ogni anno di lavoro prestato, e compartecipa alla rioccupabilità garantita da un’apposita agenzia del lavoro contribuendo fino al 90 per cento del precedente stipendio per il primo anno di disoccupazione, e ancora all’80 per il secondo anno e al 70 per il terzo. Non oltre, in modo che si abbia il massimo incentivo a far durare il meno possibile la disoccupazione.

La sinistra chiede in realtà solo il contratto unico a tempo indeterminato per tutti, che il filtro di garanzia del giudice resti quello attuale, anche sotto i 15 dipendenti, e redditi di cittadinanza per tutti come minimo garantito. Ed è questa la vera base politico-sindacale a cui va il consenso del più dei media. Convinta che la lotta al precariato si faccia trasformando con una bacchetta magica in lavoro a tempo indeterminato ogni rapporto a tempo, e con gli enormi oneri derivanti tutti a carico pubblico, in nome dell’«alziamo la spesa sociale e facciamo pagare i ricchi». Senza neanche l’azzeramento delle pensioni di anzianità, ovvio.

Io non credo affatto alla necessità del tempo indeterminato per tutti, visto che il mercato del lavoro ha bisogno anche di quote di tempo determinato, che in Francia, Germania e Spagna sono infatti più elevate di quelle italiane. Da noi la vera anomalia è che riguardano soprattutto i giovani, per l’eccesso di oneri a tutela della minoranza di insider. Resto senza parole di fronte alla demagogia che su questa materia impera sovrana. Ma ho un caro amico, Antonio D’Amato, che da presidente eterodosso della Confindustria sulla riforma dell’articolo 18 si è rotto la testa ed è rimasto solo.

È proprio la sua generosa sconfitta a spiegare perché in Italia sia rimasto tutto eguale. Le imprese per prime, dopo la botta, hanno tenuto il tema nel cassetto. Perché, parliamoci chiaro, il rischio è di un Paese che tra poco decida per rigidità aggiuntive a spese del contribuente, altro che maggiore flessibilità.

Martedì 8 Novembre 2011

Nessun commento: