mercoledì 23 novembre 2011

Innocenti a loro insaputa


di Marco Travaglio

C’erano una volta i politici che, accusati di prendere tangenti, sparivano dalla circolazione perché bastava il sospetto.

Poi vennero quelli che si indignavano per le accuse, rivendicavano la propria onestà e querelavano gli accusatori.

Poi arrivò Craxi, che prima additò Mario Chiesa come “mela marcia in un cestino di mele sane”; poi, quando Chiesa raccontò a Di Pietro “il resto del cestino”, prese la parola alla Camera e, con agile piroetta, rivendicò orgoglioso: “Qui rubiamo tutti, si alzi in piedi chi non ruba”. Poi naturalmente scappò.

Andreotti invece preferì un alibi alla vaselina: di fronte alle prove schiaccianti delle sue frequentazioni con noti mafiosi, concesse – bontà sua – che forse aveva un po’ “sottovalutato la mafia”, tutto preso da ben altre emergenze (lo scirocco e il traffico).

B., a parte negare persino di chiamarsi B. (“mai sentito parlare di All Iberian: vi pare che uno col mio senso estetico avrebbe chiamato una società con quel nome?”), non entrò mai nel merito delle accuse: si limitava a gridare al complotto e a giurare sulla testa dei suoi poveri figli, che ancora ne portano le conseguenze.

Mastella e signora, beccati a lottizzare tutto il lottizzabile nel feudo di Ceppalonia e a minacciare chiunque si permettesse di non chiamarsi Mastella e di non appartenere all’Udeur, fecero tanto di occhi per lo stupore di essere inquisiti, visto che “così fan tutti”. E magari avevano ragione, peccato che lottizzare e minacciare sia reato.

Meglio di loro fece Matteoli, che sfoderò per Bertolaso un alibi di ferro: “Non credo che prenda tangenti, ha troppe cose da fare”. Ma appena ha due minuti liberi... Quando poi un giornalista del Corriere chiese a Bertolaso se avesse intascato 50 mila euro da Anemone, quello rispose piccato: “Ma le pare che uno dei mio livello si fa comprare per 50 mila euro?”.

Qualcuno ne desunse che Anemone avesse sbagliato tariffa: uno come lui non viene via per meno di 100 mila, mica è un pezzente che si vende per un tozzo di pane.

Si pensava che nessuno avrebbe inventato di meglio, invece arrivò Scajola con la casa pagata da Anemone “a mia insaputa”: “Mi dimetto perché un ministro non può sospettare di abitare un’abitazione pagata in parte da altri”. Appena scopro chi mi ha regalato 900 mila euro, gli faccio un mazzo così. Ma ora il suo record mondiale vacilla, insidiato seriamente dall’Udc.

Alle confessioni di Tommaso Di Lernia, il bancomat di Finmeccanica, sulla mazzetta di 200 mila euro consegnata nella sede Udc al tesoriere Pino Naro perché Casini e Cesa erano fuori, l’on. Roberto Rao, braccio destro di Piercasinando, replica: “Affermazioni ridicole: Casini non ha un ufficio al partito”. Alibi granitico, che però dimostra al massimo che Di Lernia sbagliò indirizzo.

Più convincente la reazione di Casini, che annuncia una causa a Di Lernia e ricorda: “Nessun partito come l’Udc ha espresso piena fiducia nella giustizia”. Un cronista domanda: se ha tanta fiducia nella giustizia, perché ha portato in Parlamento imputati (Cesa, Cuffaro, Drago, Romano) e condannati (Naro)? E lo sventurato risponde: “Non sono io il segretario”. Bella forza, il segretario è Cesa, arrestato e reo confesso ai tempi di Tangentopoli. E Naro? “Chi lo accusa non è santa Maria Goretti”. Anche perché Maria Goretti non avrebbe nulla da raccontare: è proprio perché Di Lernia è un imprenditore che paga tangenti che la sua accusa è credibile.

Ma, mentre Piercasinando si candida alla cazzata del secolo, Giovanardi gli soffia la medaglia d’oro sul filo di lana: “Sono orgoglioso di aver segnalato a Letta una professionalità da inserire in Finmeccanica. Qualcuno pensa che le indicazioni debbano farle solo massonerie, amici degli amici e faccendieri?”. Non lo sfiora l’idea che raccomandare uno per Finmeccanica a Letta (che peraltro non ha incarichi in Finmeccanica) significa comportarsi come massonerie, amici degli amici e faccendieri. Del resto, se un’idea lo sfiorasse, non sarebbe Giovanardi.

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