mercoledì 30 novembre 2011

LO STATO TRATTÒ PER CANCELLARE IL 41-BIS


L’ex Dap Ardita: “Organi di polizia di alto livello valutarono di toglierlo”

di Giuseppe Lo Bianco

Nel mezzo della stagione delle stragi, nel ’93, “organi di Polizia ad alto livello’’ discutevano se togliere il 41-bis ai detenuti mafiosi. Lo ha rivelato il funzionario del Dap Sebastiano Ardita, ed è un’ulteriore conferma, per i pm di Palermo, che nei Palazzi istituzionali il mantenimento del carcere duro, a un solo anno dagli eccidi di Falcone e Borsellino, non era un fatto scontato ma era, invece, oggetto di un dibattito aperto e articolato, come ha dimostrato, peraltro, la nota riservata del capo del Dap, Adalberto Capriotti, inviata il 26 giugno del 1993 al ministro con la proposta di ridurre il numero dei detenuti al 41-bis del 10 per cento.

UNA RIDUZIONE singolare perché quantitativa e non, come sarebbe logico supporre, sulla base del grado di pericolosità dei detenuti. Non fu, dunque, una decisione presa “in solitudine’’, quella dell’ex ministro Conso di togliere il 41-bis a 140 mafiosi rinchiusi in cella nel novembre 1993 e per questa ragione i pm della Dda che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno deciso di riascoltare i protagonisti istituzionali di quella stagione per sollecitarne la memoria, a cominciare dall’ex ministro Giovanni Conso, che si è addossato tutta la responsabilità della revoca in perfetta “solitudine”.

Prende corpo, dunque, l’ipotesi di una “bugia istituzionale” per coprire altre responsabilità, ed è quello che vogliono accertare i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo dopo avere interrogato il 7 novembre scorso Sebastiano Ardita, che ha diretto fino a giugno l’ufficio detenuti del Dap. “Ho avuto il piacere di conoscere il comandante dell’epoca di Sicurpena (l’organismo di sicurezza delle carceri dei carabinieri, ndr) – ha detto Ardita – il generale Mastropietro, con il quale ho avuto modo di parlare; lui stesso mi rappresentava come ci fosse stata una sorta di emarginazione da parte del Dap dell’epoca, di questa struttura. Mi disse che c’erano state delle riunioni, appunto in quell’epoca, nel corso delle quali si era parlato della possibilità di togliere il 41-bis. Lui aveva saputo di queste riunioni, ma non era stato invitato. Si parlò di una riunione ad alto livello, però non mi specificò chi partecipò: magari lo ricorda ancora, possibilmente insomma... riunioni con organi di polizia, non con magistrati’’.

NEL SUO interrogatorio Ardita, che è un magistrato, ha ricostruito tutti i passaggi decisionali di quegli anni sul 41-bis, segnati da numerose anomalie, rivelando che il vicedirettore di Capriotti, Francesco Di Maggio, da molti considerato il dominus delle scelte dell’ufficio, al momento della sua nomina non aveva i titoli per ricoprire l’incarico: era un magistrato di Tribunale, mentre per quel ruolo era necessaria la qualifica di magistrato di Cassazione. Ed a sanare la situazione, ha detto Ardita, arrivò un decreto del presidente della Repubblica Scalfaro, che nominò Di Maggio nell’organico dei consiglieri della Presidenza del Consiglio dei ministri, parificandolo a un dirigente generale dello Stato.

Anomalie antiche, ma altre più recenti, come la notizia falsa, pubblicata in prima pagina da un importante quotidiano al momento dell’arresto di Provenzano, con Giovanni Riina, figlio del capo dei capi, che avrebbe apostrofato il boss al suo ingresso nel carcere di Terni con l’espressione: “Che ci fa qui stu sbirrazzu?”. Una soffiata fasulla lanciata ai giornalisti da Massimo Ciancimino, avrebbe confessato in seguito il figlio di don Vito, su input del misterioso signor Franco.

Ora Ardita rivela che l’11 aprile del 2006, il giorno dell’arresto del boss corleonese, il capo dell’ufficio ispettivo del Dap, Salvatore Leopardi, e il comandante del Gom, generale D’Amico, gli telefonarono per suggerirgli un carcere alternativo, L’Aquila o Rebibbia. “Io a entrambi dissi che questa è una scelta dell’ufficio che mi competeva – ha detto Ardita – pertanto avrei valutato in base ai miei dati e rinviai alla decisione che avrei adottato nell’arco della stessa giornata e che fu quella di assegnare il detenuto a Terni”. Per sincerarsi delle condizioni di sicurezza di Terni Ardita fa un sopralluogo in carcere, accompagnato dal vice direttore del Dap Di Somma, “e verificai che Provenzano era in perfette condizioni di allocazione’’.

“DOPO UNO-DUE giorni – prosegue il magistrato – venne pubblicata questa notizia con parecchia enfasi, e una volta che ebbi contezza che era falsa nulla mutò nel mio quadro. Tuttavia ricevetti un incarto abbastanza corposo, era presente anche una nota del procuratore nazionale antimafia, che prudentemente ci chiedeva di valutare anche l’impatto di questa notizia, benché falsa, sulla sicurezza penitenziaria. Io scrissi una nota di un paio di cartelle in cui spiegai che non c’era alcuna ragione per spostare Provenzano”.

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