sabato 31 dicembre 2011

Finalmente un leader di livello europeo




di EUGENIO SCALFARI

Monti non è un tecnico e non è un economista. Mario Monti è un finissimo uomo politico e ne abbiamo avuto la prova, anzi la conferma, dalla conferenza stampa di giovedì scorso. È durata più di due ore. Ha fatto un discorso introduttivo di un quarto d'ora e poi, per più di un'ora e mezzo, ha risposto a 31 domande assai pepate dei giornalisti. Forse alla fine era un po' stanco ma non si vedeva, l'adrenalina lo sosteneva come fosse uscito in quel momento da un benefico riposo.

Durante la conferenza stampa, tra tanti argomenti toccati e approfonditi, ha fatto l'elogio della politica ricordando che è l'attività più nobile dello spirito umano perché si occupa del bene comune nostro e dei nostri figli e nipoti.
"Gli uomini politici possono essere all'altezza del compito oppure scadenti e corrotti, anteponendo il bene proprio alla prosperità degli altri. Il nostro sforzo  -  ha detto  -  è quello di favorire il miglioramento del personale politico operando con efficacia per recuperare il valore di quell'attività".

Era molto tempo che non assistevamo ad un incontro di quel livello.
Competenza, padronanza degli argomenti, ironia e autoironia, furbizia tattica e sapiente strategia.
Personaggi di quella taglia se ne vedono pochi in giro in Italia e anche in Europa. A me che ne ho conosciuto parecchi sono venuti in mente Vanoni e Andreatta, La Malfa e Visentini, Schmidt e Jean Monnet.

Esponeva i dati della situazione economica, le strettezze della finanza, le difficoltà di elaborare un programma di sviluppo senza abbandonare il rigore, tenendo insieme un'eterogenea maggioranza parlamentare e negoziando con le parti sociali sul patto generazionale senza il quale è impossibile realizzare la crescita e l'equità. Alla fine ha riassunto l'obiettivo che il suo governo si propone di realizzare indicando i tre valori che vi presiedono:
libertà, giustizia, solidarietà. Sono i valori sui quali è nata l'Europa moderna e le bandiere tricolori della Grande Rivoluzione ne furono e ne sono il simbolo rappresentativo.
Quella conferenza stampa è stata il battesimo di un leader di prima grandezza e ne siamo usciti rassicurati e grati.

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Le critiche non sono mancate. Si voleva che desse conto dell'articolato dei provvedimenti destinati allo sviluppo che saranno pronti entro il 20 gennaio, seguiti da ulteriori interventi in febbraio e in aprile. Si volevano indicazioni sul livello ottimale dello "spread" che si trova ancora al suo picco. Le "lobbies" che ancora padroneggiano ampi settori del Pdl e della Lega sono decise a limitare l'entità delle liberalizzazioni.
Di Pietro è arrivato a rimproverarlo di non avere la bacchetta magica come ci si aspettava.
Ma chi si aspettava i miracoli? C'è ancora gente così stolta e così intrisa di demagogia da pronunciare frasi così insensate? C'è ancora gente che rimpiange i tempi in cui imperavano le cricche berlusconiane? Gli italiani hanno scarsa memoria storica, ma non fino a questo punto. La politica seria non fa miracoli e non è un circo equestre dove si esibiscono acrobati, orsi che fanno l'inchino e maghi che mangiano il fuoco. La politica è senso di responsabilità, realismo, diagnosi dei malanni e attento dosaggio dei rimedi.
Al circo ci vanno i bambini e recitano i pagliacci che li fanno ridere con le loro smorfie e la faccia infarinata.

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Non vi aspettate che la crescita sia a costo zero, lasciate a Giulio Tremonti queste baggianate con le quali ci ha portato al punto in cui siamo. E non vi aspettate che le misure di sviluppo indicate da Monti siano sufficienti se non saranno accompagnate da un'adeguata politica economica europea. 
Lo sviluppo presuppone investimenti, gli investimenti presuppongono un aumento della domanda, quell'aumento presuppone un maggior potere d'acquisto. Questa sequenza di cause e di effetti che interferiscono tra loro presuppongono fiducia, cambiamento delle aspettative, mobilitazione di risorse ed equità nella distribuzione dei sacrifici e dei benefici.
Il governo ha messo al primo posto della sua agenda la
lotta all'evasione indicando gli strumenti dei quali dispone. Ha sottolineato la necessità di far crescere la produttività e con essa i salari. Per ottenere l'aumento dei salari netti bisogna ridurre il divario tra costo del lavoro e busta paga. Quindi bisogna fiscalizzare i contributi riducendo massicciamente le imposte sulle imprese, il cuneo fiscale o comunque lo si chiami.

Ma sull'aumento di produttività va aggiunto che il problema va molto al di là del costo del lavoro: ci vogliono forti innovazioni sia nei processi produttivi e sia - soprattutto - dei prodotti. Su questo secondo punto l'industria e i servizi del terziario di qualità lasciano molto a desiderare. Quando si discute della produttività sembra quasi che il tema non riguardi gli imprenditori ma i sindacati operai. Marchionne è l'esempio eloquente di quest'errore di prospettiva. Se l'imprenditoria italiana non specializzerà la sua ricerca sull'innovazione del prodotto, recuperare adeguati livelli di produttività resterà una chimera.
Non a caso su questo punto Monti ha messo l'accento. Il "piccolo è bello" ha fatto il suo tempo perché il "piccolo" non è in grado di fare ricerca. Il piccolo non è bello affatto e va energicamente incoraggiato a crescere anche se finora su questo punto si è fatto pochissimo.

Quanto alla mobilitazione delle risorse per accrescere il potere d'acquisto dei consumatori, il recupero dell'evasione è certamente fondamentale ma i risultati avranno bisogno di tempo. È esatto constatare che fino a quando quella lotta non avrà prodotto i suoi frutti continueranno a pagare "i soliti noti". Ma se bisognava salvarsi dal baratro con una manovra preparata in due settimane, chi avrebbe dovuto pagare se non i suddetti "noti"? Si poteva aspettare un anno o ancora di più? I movimenti di protesta, le opposizioni senza argomenti, non rispondono a questa domanda sui tempi, quando gli attuali "ignoti" saranno finalmente scovati, l'aumento delle entrate bisognerà destinarlo a ridurre le imposte sui soliti noti, questa è l'equità che il governo si propone e ci propone.

Nel frattempo però anche la crescita richiede una partenza rapida. L'obiettivo più a portata è il taglio delle esenzioni e delle regalie fatte a suo tempo a molte categorie di impresa che non danno alcun particolare contributo d'innovazione e di crescita. La cosiddetta "spending review" prevede una mappatura che solo questo governo ha cominciato ad avviare ma che chiederà anch'essa tempo, salvo alcuni casi macroscopici che gli esperti conoscono bene. Questi sprechi  -  perché di veri e propri sprechi si tratta  -  vanno colpiti subito, la cifra che si può recuperare prevede almeno
10 miliardi immediati. Non si tratta di tasse ma di spese da tagliare. Entro aprile quest'obiettivo può essere realizzato ma lo sgravio sul potere d'acquisto dei consumatori può essere disposto subito finanziandolo con quell'esenzione dal deficit degli effetti della congiuntura che Monti ha già chiesto a Bruxelles e che auspichiamo sia definitivamente riconosciuta negli incontri europei di fine gennaio.

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Molti si chiedono quali risultati abbia dato
l'imponente erogazione di liquidità (500 miliardi) che la settimana scorsa Draghi ha effettuato. Monti non ha fatto alcun cenno in proposito perché la Bce ha finanziato il sistema bancario e non i debiti sovrani degli Stati europei, visto che il suo statuto non glielo consente. Ma è ovvio che il governo conosce i possibili e fondamentali effetti di quella manovra per il collocamento dei titoli di Stato per cifre imponenti da febbraio ad aprile e oltre.

Le banche finora non hanno utilizzato la liquidità proveniente dalla Bce. In piccola parte sono intervenute alle aste dei giorni scorsi soprattutto sui Bot a tre e sei mesi e, in misura ancor più limitata, sui quinquennali e decennali emessi giovedì scorso. In parte hanno ricomprato obbligazioni proprie sul mercato secondario, ma il grosso della liquidità è fermo nei depositi della Bce. In attesa di che cosa? 
Due sono i motivi di questa prevista gradualità.
Il primo riguarda le decisioni europee di fine gennaio, il secondo la letargia della clientela sia per quanto riguarda l'attivo sia il passivo delle banche. C'è stata nei mesi scorsi una diminuzione cospicua dei depositi e una altrettanto cospicua diminuzione della richiesta di nuovi prestiti, in parte come effetto della recessione e in parte a causa della perdurante sfiducia nella capacità dell'Europa di governare la crisi. Meno depositi, meno prestiti, preferenza per investimenti a breve, cautela su quelli a lungo termine.

Le previsioni della Bce sono moderatamente ottimistiche.
Prevedono che in febbraio le banche europee saranno presenti attivamente alle aste in Italia, Spagna, Francia, Germania. Faranno profitti con la differenza tra i tassi delle aste e quello dell'1 per cento che gli è costato l'approvvigionamento. Quei profitti andranno a rinforzare i loro capitali e la loro presenza alle aste avrà il risultato di far scendere i rendimenti sui titoli pubblici, sempre che questo circuito virtuoso si realizzi.

Per quanto riguarda lo "spread" se questi percorsi si metteranno in moto diminuirà anch'esso anche se i picchi attuali dipendono in parte dal minor rendimento dei "Bund" tedeschi, quotati attorno all'1.80 anziché, come pochi giorni fa, al di sopra del 2. La Germania dovrebbe accrescere i consumi interni e le spese pubbliche per equilibrare l'economia propria e quella europea, ma ancora non ci sono segnali in questa direzione.

Infine una parola sul tasso di cambio euro-dollaro. Molti commentatori vedono la svalutazione dell'euro, che recentemente oscilla attorno a 1.30 con tendenza a ulteriore ribasso, come una sciagura. Ma non è affatto una sciagura. Appena un anno e mezzo fa l'euro era a livello di 1.18 sul dollaro e questa quotazione favorì le esportazioni. In tempo di recessione, un leggero aumento dell'inflazione e una discesa del cambio estero non sono sciagure ma eventi positivi e come tali andrebbero valutati.

Post scriptum: Mario Monti ha escluso tassativamente sue candidature politiche alle future elezioni e ha escluso anche  -  e giustamente  -  una sua candidatura al Quirinale perché quella posizione non prevede e non sopporta candidature. Le domande su questi propositi politici di Monti ed eventualmente dei suoi attuali ministri erano inutili poiché le risposte erano prevedibili ed ovvie.
Resta il fatto che alle prossime elezioni tutto sarà diverso da prima; pensare che si ripetano le procedure d'un tempo e che si torni a confrontarsi sullo stesso campo da gioco è pura illusione. Questo governo è stato un'innovazione per il fatto stesso di esistere e di esser nato con queste modalità peraltro perfettamente costituzionali. Questa innovazione non è una rondine pellegrina ma un decisivo aggiornamento della democrazia parlamentare. Questo è un evento positivo con il quale la dolorosa e sofferta emergenza ci compensa.

31 dicembre 2011

Berlusconi smentisce l'ingerenza tedesca "Mie dimissioni solo per senso dello Stato"




Sulla stampa internazionale impazza il toto-ricostruzioni  sulle drammatiche giornate che hanno preceduto la fine del governo di centrodestra, ma Silvio Berlusconi ribadisce che "ho lasciato senza mai essere sfiduciato in parlamento: l'ho fatto per evitare che la speculazione finanziaria si accanisse contro l'Italia e contro il risparmio delle famiglie. L'ho fatto per senso di responsabilità, per senso dello Stato. E' stato un sacrificio ma sapevo bene che la causa della crisi non era il nostro governo. La causa era ed è ancora l'euro".

Nessuna ingerenza dunque da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel, come riferito dal Wall Street Journal, ma una scelta autonoma per il bene del Paese che secondo l'ex premier è servita solo in parte. "Nonostante la manovra del governo dei professori lo spread rimane a livelli elevati e la crisi economica continua a mordere", ha aggiunto il Cavaliere intervenendo all'edizione mattutina del Tg5.  "Risulta sempre più evidente la vergogna di chi ha indicato il mio governo come l'unica causa di questa situazione", ha detto ancora Berlusconi. Il suo governo, ha insistito, "ha fatto una manovra per tenere sotto controllo i conti pubblici e ha avviato riforme strutturali importanti".

Sul suo futuro ruolo in politica l'ex premier ha ribadito: "Sono lieto di deludere chi mi aveva archiviato: non lascerò la politica ma resterò in campo per dare sostegno alla nuova generazione di dirigenti politici e per portare il Pdl alla vittoria alle prossime elezioni".  "Anche questa volta - ha proseguito quindi riferendosi all'Italia - ce la faremo, siamo un grande Paese e un grande popolo". Il problema, semmai, ha aggiunto è europeo in quanto l'Europa è "divisa e incapace di
decidere" e  "i mercati lo hanno capito".
 
(31 dicembre 2011)

Hormuz, l'Iran mostra i muscoli "Presto test missilistici nel Golfo"




La Marina militare iraniana ha smentito di aver testato oggi razzi di lunga gittata nel Golfo Persico, come aveva precedentemente annunciato l’agenzia di stampa Fars. «Il lancio di missili avverrà nei prossimi giorni», ha spiegato l’alto comandante della Marina Mahmoud Mousavi all’emittente Press Tv.

Gli esercizi navali coincidono con un periodo di grandi tensioni tra l’Occidente, Usa in particolare, e l’Iran per il programma nucleare di Teheran. Martedì l'Iran aveva minacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz, rotta chiave per il transito del greggio, se fossero state imposte nuove sanzioni.

Intanto il ministro del petrolio ha annunciato che il prezzo del greggio aumenterà di duecento dollari a barile se verranno imposte nuove sanzioni sulle esportazioni di petrolio per il controverso programma nucleare.  «Senza dubbio il prezzo del greggio aumenterà drammaticamente se le sanzioni verranno imposte sul nostro petrolio - ha dichiarato il ministro Rostam Qasemi - L’aumento raggiungerà almeno i 200 dollari a barile».

E la Cancelliera disse "Rispettate gli impegni"




ANTONELLA RAMPINO

C’ è da immaginarselo Giorgio Napolitano col «Wall Street Journal» tra le mani, mentre legge di se stesso che prende ordini da Angela Merkel. E ordini espressi, nella ricostruzione offerta dalla bibbia del liberismo angloamericano, con un linguaggio alla Di Pietro: che aspetta, presidente, a liberarci di Silvio Berlusconi? Naturalmente, nessun Capo di Stato si sogna di impartire né di prendere ordini, nemmeno quando si è tutti sulla stessa barca e quella barca rischia il naufragio, ed è infatti con una certa nonchalance che poi il Colle precisa in una riga: «Angela Merkel non ha mai chiesto la sostituzione di Berlusconi». Napolitano ha una vena di napoletanissima ironia, e se dire che la lettura lo ha divertito sarebbe troppo, di certo ha trovato la cosa buffa assai.

Com’è ovvio, i cerimoniali e i rituali tra le supreme sfere delle Nazioni non prevedono ingiunzioni, richieste perentorie, prescrizioni e diktat. E solo il pragmatismo del giornalismo all’americana, e che per una volta avrà fatto rimpiangere a Napolitano perfino i famigerati «retroscena» italiani, poteva arrivare a concludere d’un colpo quale fosse il vero scopo della telefonata della Cancelliera. La frase poi non si presume nemmeno sia stata pronunciata: nel testo c’è, ma non tra virgolette. E allora?

Il linguaggio della politica internazionale è indiretto, articolato, e non per questo meno incisivo. «La Stampa» ha ricostruito, con fonti diplomatiche internazionali e testimoni oculari, e i racconti collimano. «Presidente, noi vogliamo l’Italia nell’euro, ma occorre che l’Italia faccia la propria parte», dice Merkel che aveva aperto la telefonata spiegando a Napolitano di aver esposto le proprie preoccupazioni già a Berlusconi, che non era riuscito però a dissipare i suoi dubbi.

E’ indubbiamente una serata molto fredda quella del 20 ottobre a Roma, ma sono, soprattutto, giorni - settimane, mesi - di grande freddo tra Paesi fondatori: Francia e Germania non riconoscono più l’Italia, non ricevono più l’Italia a consulto, al capezzale del grande malato, l’euro, che inquieta anche un altro Presidente, al di là dell’Atlantico. Il giorno prima, come registra anche il «Wall Street Journal», Merkel e Sarkozy hanno disputato a lungo, l’insistenza del Presidente francese perché la Bce intervenga a salvataggio dei debiti sovrani che mettono a rischio l’euro ha irritato non poco la Cancelliera. Che porta su di sé il peso della guida dell’Eurozona, e che si lascia andare spesso, infatti, a esclamazioni di insofferenza verso il collega.

E quella frase, quell’affermazione con la quale Angela Merkel chiude quella mezz’ora al telefono con Napolitano, è l’unica che non termini con un punto interrogativo. Ce la farà l’Italia a tener fede alle misure disposte in seguito alla lettera della Bce? Ce la farà a stare in sella il governo, con un solo punto in più di maggioranza? Ce la farete a rispettare gli impegni presi sul debito pubblico e la crescita? E a ruota - come il Wsj non ricorda - a rivolgergli più o meno le medesime questioni fu anche il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker.

E occorre ricordare lo scenario nel quale quella e molte altre telefonate arrivano al Colle: all’ultimo Consiglio europeo, Berlusconi ha ripetuto davanti a tutti i leader che in Italia la crisi economica non c’è, «va tutto bene, gli alberghi e i ristoranti sono pieni». I leader sopportano, sconcertati, fino al consiglio di Cannes, ovvero sinché non sono i mercati a picchiare duro: Berlusconi si trova messo all’angolo da Merkozy. «Sono stati senza pietà», riferisce un testimone oculare. La minaccia è di un commissariamento da parte del Fondo Monetario Internazionale. E ciò nonostante, durante il vertice, a tratti Berlusconi schiaccia un pisolino. L’allarme al Quirinale è massimo, e Napolitano in tutti i contatti, con Merkel, Wulff, Barroso, Juncker, Sarkozy, e anche a un certo punto Obama, ripete un mantra: «L’Italia rispetterà gli impegni che ha assunto». L’Italia. Alla cui credibilità Napolitano ha fatto da baluardo e garante, come riconosce persino il «Wall Street Journal».

Come ragiona la mente dei mercati




LUCA RICOLFI

Anche ieri, come ormai succede da diverse settimane, i mercati hanno mostrato di non aver fiducia nell’Italia. Per prestare denaro a lungo termine al nostro Stato pretendono 5 punti percentuali di interesse in più (il famigerato spread) che per prestarlo alla Germania, e quasi 2 punti in più che per prestarlo alla Spagna. Ancora pochi mesi fa il nostro spread con la Germania era inferiore a 2 punti, e i mercati preferivano prestare soldi all’Italia piuttosto che alla Spagna.
E’ comprensibile che il governo e i suoi sostenitori cerchino di convincerci che lo spread non è poi così importante, che la situazione non va drammatizzata, che se dopo l’insediamento di Monti e la nuova manovra le cose non sono migliorate (anzi sono peggiorate) la colpa non è dell’Italia ma delle autorità europee.
Pier Ferdinando Casini, ad esempio, ha dato la colpa alla Banca Centrale Europea, che ultimamente ha fortemente ridotto gli acquisti dei nostri titoli di Stato. Il presidente del Consiglio, per parte sua, ha chiamato in causa soprattutto il Consiglio Europeo dell’8-9 dicembre, colpevole di aver immesso troppo pochi quattrini nel fondo salva-Stati, e ha anch’egli menzionato la riduzione degli interventi della Bce a sostegno dei nostri titoli. Da più parti si continua a ripetere che la sfiducia dei mercati nell’Italia non ha riscontro nei fondamentali dell’economia, che sono molto migliori di quanto lo spread suggerirebbe.
So di avventurarmi su un terreno scivoloso, perché non ci sono abbastanza dati per valutare la plausibilità delle varie interpretazioni di quel che sta succedendo, ma vorrei egualmente porre alcune domande.
Domanda numero 1. Perché la sostituzione di Berlusconi con Monti, nonostante l’indubbia maggiore credibilità internazionale di quest’ultimo, si è accompagnata ad un aumento dello spread anziché a una sua diminuzione? Perché non si è realizzata la profezia delle opposizioni secondo cui la «discontinuità» politica rappresentata dalla rimozione di Berlusconi avrebbe ristabilito un po’ di fiducia sui mercati?
Certo si può dire che la credenza delle opposizioni era ingenua o strumentale, e che aveva perfettamente ragione Barack Obama quando diceva che i problemi dell’Italia non sarebbero certo svaniti d’incanto con la caduta di Berlusconi. E tuttavia un problema resta: perché le cose vanno peggio ora, visto che Monti è indubbiamente percepito da tutti i soggetti che contano (mercati e autorità europee) come più capace di Berlusconi di mantenere gli impegni presi?
Domanda numero 2. Se la ragione per cui il nostro spread non scende è davvero la riluttanza delle autorità europee a irrobustire il fondo salva-Stati, perché lo spread della Spagna oscilla senza una netta tendenza all’aumento o alla diminuzione, mentre il nostro mostra una chiara tendenza all’aumento? Perché fino a pochi mesi fa il nostro spread era migliore di quello spagnolo e ora è peggiore? Basta l’allentamento del sostegno della Bce a spiegare la svolta a nostro sfavore?
Domanda numero 3. Perché la situazione relativa di Italia e Spagna si è deteriorata drammaticamente nelle ultime quattro settimane, che hanno visto il nostro spread rispetto alla Spagna passare da 66 punti base a 174? Come mai questo deterioramento si è prodotto nel momento meno logico, ossia proprio quando, finalmente, un governo autorevole e nuovo di zecca varava una manovra di grande portata? Basta il comportamento delle banche spagnole, più manovrabili dal governo centrale, a spiegare la tenuta dei titoli di Stato iberici? O è il fatto di avere un’intera legislatura di fronte ad avvantaggiare il premier spagnolo, mentre il nostro presidente del Consiglio non sa se e quando i partiti che lo sostengono gli staccheranno la spina?
Non conosco la risposta a queste domande, ma un’ipotesi l’avrei. Più che un’ipotesi è un dubbio, o un tarlo. Detto nel modo più crudo, il tarlo è questo: non sarà che, ci piaccia o no, nei momenti di crisi la mente dei mercati funziona molto diversamente da come se la immaginano politici ed autorità europee?
Per essere più precisi. Non sarà che i mercati danno poca importanza all’entità degli aggiustamenti di bilancio (i saldi della manovra) e molta importanza alla sua composizione? Non sarà che, nella seconda metà di novembre, in Spagna e in Italia sono avvenuti due cambiamenti che i mercati giudicano in modo opposto?
In Spagna c’è stato un cambio di governo, da sinistra a destra, che promette di aggiustare il bilancio prevalentemente dal lato della spesa, alleggerendo vincoli e pressione fiscale sulle imprese. In Italia c’è stato un cambio di governo da destra a «non-destra» che, nonostante il contesto in cui operano le nostre imprese sia molto più sfavorevole di quello spagnolo, ha già dimostrato di puntare il grosso delle sue carte sull’aumento delle tasse (come succedeva con il precedente governo). E’ vero che la manovra Monti prevede sgravi fiscali sulle imprese per 2,5 miliardi, ma tali sgravi sono annullati dalle molte misure che aumentano i costi di produzione di lavoratori autonomi e imprese, come la maggiorazione delle aliquote contributive, le nuove imposte sugli immobili, gli aumenti del costo dell’energia.
Forse, se i mercati hanno punito l’Italia non è nonostante la manovra di Monti, ma - in un certo senso - a causa di essa. La credibilità di Monti, la sua serietà, il suo coraggio, non sono bastati per la semplice ragione che i mercati hanno colto l’impianto recessivo della manovra, nonché il carattere tuttora evanescente della cosiddetta «fase 2», quella che dovrebbe rilanciare la crescita. Spiace doverlo constatare, ma in fatto di crescita i mercati paiono credere poco agli annunci dei governi, e abbastanza alle previsioni dei grandi organismi internazionali, tipo Ocse o Fondo Monetario Internazionale.
E tali previsioni parlano chiaro: per la Spagna la crescita attesa del Pil nel 2011 è stabile a +0,8 e quella del 2012 resta positiva (+0,5). Per l’Italia la previsione 2011 è già stata ridotta di mezzo punto (da +1,1 a +0,6), mentre per il 2012 si prevede una contrazione del Pil, pari a -0,5 secondo l’Ocse e addirittura a -1,6 secondo il Centro Studi Confindustria.
Che sia per questo, perché hanno capito che in Italia - chiunque governi - la crescita è solo uno slogan, che i mercati continuano a non fidarsi di noi?

CARRELATA














I Bossi finiti sotto il Carroccio




IL SENATÙR SOLO, RENZO SEMPRE IN MEZZO ALLE ROGNE
di Fabrizio d’Esposito e Elisabetta Reguitti

Umberto Bossi è ormai una macchietta tragica e pericolosa.
Fasciata in un cardigan largo, sformato di colore verde, a mo’ di grottesca sindone padana. Adesso che la parabola dell’imbarazzante figlio Trota prevede anche presunte inchieste giudiziarie, e non solo più gaffe, il Senatùr è costretto a insultare il capo dello Stato per tenere insieme una Lega sempre più lacerata dalle guerre interne. Un nervosismo evidente, plateale.
   L’altra notte a Bergamo, alla festa del Carroccio (la “Berghem Frecc”), Bossi ha chiamato “terùn” Napolitano (“nomen omen”) e gli ha pure mostrato le corna, incoraggiato dal pubblico. Al premier Monti ha riservato un insulto ancora più greve e volgare. I militanti hanno intonato “Monti vaffanculo” e lui ha chiosato, stile Calderoli (noto per le sue battute contro i gay): “Chissà che non gli piaccia a Monti”. Squallido. Ovviamente nel repertorio della stanca Lega di lotta e opposizione c’è spazio di nuovo per la secessione. Che però Bossi chiama “indipendenza”. Slogan, come al solito.
   SUL PALCO DI Bergamo, con il Senatùr non c’era nessuno del “cerchio magico” che lo ha blindato dai tempi dell’ictus. Né i capigruppo Reguzzoni e Bricolo, né la “badante” nonché vicepresidente del Senato Rosi Mauro. Per loro, trasferta “vietata” dai due colonnelli più antichi del Capo, i due Roberti: Maroni e Calderoli. Il primo, ex ministro dell’Interno, ha sorriso e applaudito agli insulti bossiani della “Berghem Frecc”. Ma l’immagine del palco, Bossi con Maroni e Calderoli, è il segno più evidente della solitudine e dell’impotenza di un leader in declino.
Senza più poltrone di governo, senza più il controllo del partito, senza più il sostegno (almeno in apparenza) dell’ex amico “Silvio”.
Orfano forzato del cerchio magico, il Senatùr aveva accanto a sé la stessa persona che ha alimentato dubbi sullo scandalo che ha investito l’amato Trota, consigliere regionale in Lombardia.
Così Maroni: “Spero non sia vero, la Lega che conosco è fatta di persone oneste”. Sospettato di fare festini a base di droga con Alessandro Uggeri, fidanzato di Monica Rizzi, assessore leghista al Pirellone, Renzo Bossi è il simbolo della deriva nordcoreana di un partito governato per due decenni in modo leninista. Una satrapia guidata dalla zarina Manuela Bossi e che la stampa ha chiamato “cerchio magico”. Bossi ha liquidato la questione di netto, “è un modo per sporcare la gente”, e la Rizzi, che è la “badante” politica del Trota, ha minacciato di querelare il quotidiano che ha pubblicato l’articolo, La Repubblica.
   IN REALTÀ, il sospetto è che dietro la notizia ci siano le guerre interne del Carroccio. Come conferma al Fatto, il neoprocuratore capo di Brescia Fabio Salamone: “Non c’è alcuna inchiesta, anche se non escludo che ci sia un rapporto di amicizia tra Renzo Bossi e Uggeri. Si tratta di beghe di cortile nella Lega”. Tutto questo però non ha frenato i malumori nel partito e nella base contro la gestione familista del Carroccio. Tra i quadri locali circolano da tempo allusioni esplicite all’esuberante stile di vita di Bossi junior, che l’apprensiva madre vorrebbe mandare deputato a Roma alle prossime politiche. Si va dalle sue trasferte “universitarie” a Londra alle ironie sull’ufficio “multe” aperto solo per lui nella sede nazionale della Lega a Milano, in via Bellerio. Per anni, infatti, il partito ha pagato le contravvenzioni prese dai suoi ministri a Roma e adesso che si è tornati all’opposizione, i funzionari si dedicano agli eccessi di velocità del rampollo “nordcoreano”.
   Tra i militanti, l’unico argine al cupio dissolvi è rappresentato da Maroni, cofondatore della Lega. L’ex fedelissimo Bobo avrebbe ormai la maggioranza del partito con lui e vorrebbe una successione per via democratica, con una stagione di congressi. Ma la diga del “cerchio magico” ancora non cede e il risultato è una palude padana che Bossi cerca di movimentare con le sue uscite. Così anche Maroni usa un doppio registro, a imitazione del Capo. Da un lato sorride e applaude agli insulti in terra bergamasca, dall’altro vacilla sull’innocenza del Trota e attacca Reguzzoni per la campagna contro il discorso di fine d’anno del capo dello Stato. Un teatrino che una fonte autorevole riassume in un’analisi macabra e spietata: “Se Maroni non si fa venire il coraggio, il rischio è che finché Bossi vive tutto rimanga bloccato”.
   NON SOLO. Con le amministrative praticamente alle porte, nascono nuovi movimenti leghisti anti-bossiani. L’ultimo è l’Unione Padana di quattro ex parlamentari leghisti che sta avendo un boom di iscrizioni proprio in provincia di Bergamo. L’8 gennaio 2012, poi, partirà un nuovo sito padano ma non leghista: L’Indipendenza. Tra i fondatori tre storici leghisti oggi contro Bossi: Leonardo Facco, Gilberto Oneto e Luca Marchi. Quest’ultimo fu il primo direttore della Padania, che debuttò nelle edicole l’8 gennaio del ’97. Tre lustri dopo, Marchi dice: “Bossi ha passato vent’anni a fare annunci ma non ha mai realizzato nulla”.

GLI INTERESSI DEL CORRIERE





Dopo gli attacchi di via Solferino Passera dice: “Ho venduto tutto”
di Giovanna Lantini

Dopo la pax, la tempesta. Il giornale che più ha promosso la transizione da Silvio Berlusconi a Mario Monti, quello dove il professore della Bocconi è stato a lungo l’ editorialista più autorevole, il Corriere della Sera, insomma, ha un rapporto sempre più dialettico con il governo. Per usare un eufemismo. Nell’azionariato di via Solferino regna ancora “l’arzillo vecchietto” (così lo chiamava Diego Della Valle) sopravvissuto alle cesoie del 2011, il bresciano Giovanni Bazoli presidente di Intesa Sanpaolo, coadiuvato da Piergaetano Marchetti, il cui mandato alla presidenza di Rcs è però in scadenza insieme a tutto il cda dell’editrice. Il quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli, infatti, nelle ultime settimane ha avanzato critiche sempre più dure al governo Monti. Ieri l’escalation è sfociata in un duro attacco all’ex-ad di Intesa ora ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera e sui suoi conflitti di interesse.
   LE PRIME schermaglie erano iniziate il 28 novembre quando via Solferino è entrata nella partita dei sottosegretari con un corsivo non firmato che suggeriva all’ex banchiere di evitare la nomina di Mario Ciaccia, il numero uno di Biis, la banca del gruppo Intesa per le infrastrutture. “Due banchieri con la stessa casacca sarebbe troppo”, si spiegava nel corsivo. Avvertimento ignorato, Ciaccia è vice-ministro. Il secondo round è datato 4 dicembre, quando il Corriere pubblicava un editoriale-stoccata degli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi intitolato: “Caro presidente. No così non va”.
   GLI ESPERTI contestavano a Monti la scelta di aumentare l’Irpef al 46 per cento con un atto giudicato recessivo. Giudizio sul quale Monti deve aver convenuto dato che è scomparso dalla manovra e il premier stesso ha negato di averlo mai voluto adottare. Non appagando, però, i due economisti che l’11 dicembre sono tornati all’attacco ricordando la necessità degli stimoli alla crescita (due giorni fa monti ha replicato loro “Anche io so qualcosa di economia). Poi il 22 dicembre va alla carica il vicedirettore Massimo Mucchetti, a torto o a ragione considerato in sintonia con Bazoli, che si è chiesto dove siano i poteri forti dato che il cosiddetto governo delle banche ha approvato una norma contro le poltrone incrociate fra banche e finanziarie concorrenti. Una mossa che imporrebbe al presidente di Intesa di scegliere fra la banca milanese e il gruppo Ubi, con quest’ultimo che poggia su delicatissimi equilibri tra Bergamo e la bazoliana Brescia. E lo stesso Mucchetti ha ricordato un decennio di resistenza italiana di Mediobanca agli attacchi francesi proprio nel giorno dell’accordo-Passera sulla cessione di Edison, poco gradito a Brescia, che incasserà meno dividendi dalla controllata A2A penalizzata dalla perdita in bilancio sul quanto ricevuto da Parigi per i titoli del gruppo energetico. Ma anche al finanziere franco-polacco Romain Zaleski, amico di Bazoli e debitore di Intesa per 1,4 miliardi, che dall’operazione accuserà una perdita di 340 milioni.
   Caso o meno, è un pezzo di storia d’Italia, quello raccontato il 27 dicembre dal vicedirettore del Corsera che a qualcuno è suonato anche come un richiamo alla memoria di chi oggi siede in poltrone diverse favorendo accordi che paiono essere più interessanti Oltralpe che in casa propria. Dove invece i terremoti e le contropartite sono tuttora in corso. Anche in Rcs, che oltre che con il delicato rinnovo del cda dovrà fare presto i conti come tutti con il salvataggio del gruppo Ligresti socio del Corriere con il 5 per cento circa.
   E VENIAMO all’ultimo attacco, quello sugli 8,6 milioni di titoli Intesa che Passera il 18 dicembre (in diretta tv) ha dichiarato di essere pronto a cedere. Con tutto quel che ne consegue. Per la banca cui sicuramente non giovano le vendite sul mercato e per le sue tasche, visto che in Borsa Intesa è molto lontana dai suoi massimi. Questo tema è al centro dell’ultimo e più violento attacco del Corriere. Lo firmano Milena Gabanelli e Giovanna Boursier, di Report (che da alcuni mesi collabora con il Corriere). Le due giornaliste chiedono al “Passera-super Ministro” di “liberarsi di tutti gli ingombri”. E alla Gabanelli è difficile dire di no. Infatti, a quando risulta al Fatto, Passera ha subito scritto una lettera che verrà pubblicata oggi. Contenuto: le azioni sono state vendute, il ministro si è liberato di tutti i suoi conflitti di interesse (tranne quelli reputazionali, difficile agire da ministro in partite in cui Intesa ha investito centinaia di milioni di euro).
Restano alcuni punti misteriosi: a chi le ha vendute, a quale prezzo, in quale momento esatto. E quale liquidazione milionaria ha concordato con Intesa Sanpaolo.

“Che ci facevano due ex ministri a pranzo a Berlino?”




di Luca Telese
   “Ha visto a cosa mi riferivo? Adesso capisce perché non potevo parlare?”. Questa intervista ha un precedente. Il giorno dopo la dimissioni di Berlusconi, Gianfranco Rotondi celebrò una conferenza stampa a Montecitorio, sparando su coloro che nel suo governo avevano avallato la capitolazione del Cavaliere. Alla buvette, per spiegare quella durezza così insolita per un democristiano come lui, aggiunse. “Siccome sono anche un giornalista e una persona seria, non avendo riscontri, non posso dire pubblicamente quello che ho saputo in via informale e confidenziale. Però si tratta di un fatto che considero politicamente molto grave”. Allora gli avevo detto: “Quale, ministro Rotondi?”. E lui: “Per ora taccio. Ma sono sicuro che ne riparleremo presto”.
   Onorevole Rotondi, lei sapeva già che la stampa internazionale era su questa pista?
   Assolutamente no. La notizia di cui le parlai mi arrivava da canali assolutamente politici.
   Fra poco ci spiegherà di cosa si trattava. Prima però vorrei che mi raccontasse dove era il giorno delle dimissioni.
   Ero con Berlusconi ad Arcore. E per questo, da testimone oculare, posso dirle con certezza che la metà dei retroscena che ho letto sono falsi.
   Cioè?
   Ci hanno raccontato che Berlusconi gettò la spugna perché il colpo di grazia glielo diede la famiglia e la “corte” di Milano.
   E non è così?
   Ma nemmeno per sogno….Io quelle discussioni non solo le ho sentite, ma ne sono stato anche in parte partecipe. Non è assolutamente vero che i figli, o gli uomini a lui più vicini abbiano detto: “Dimettiti”. Anzi…
   Anzi cosa?
   Berlusconi fu incoraggiato a resistere. E quando prese l’aereo per Roma era intenzionato a non mollare. Poi atterrò, non so che colloqui ebbe. E se ne ebbe, e come è noto cambiò idea.
   Però adesso ci spieghi cosa venne a sapere, e perché le sembrò così grave.
   Amici della Cdu, che io considero strettamente attendibili. Mi riferirono di un pranzo.
   Tutto qui. Mi pare un po’ poco per gridare al complotto.
   Mi lasci finire! … Un pranzo, che si tenne in un ristorante di Berlino dove due noti politici italiani, due ex ministri, parlarono a lungo, con dei politici e degli esponenti… come dire?... di alcune associazioni, della necessità che Berlusconi si dimettesse subito e che si formasse subito un nuovo governo, più gradito agli interlocutori dei nostri connazionali.
   Cosa per “associazioni”?
   Dei club diversi dal club di Topolino.
   Di che parla? Un complotto pluto-giudaico-massonico?
   Che cosa vuole che le racconti?  che ci fossero questo tipo di pressioni?
   Questo non credo.
   Quando dava della culona eccetera alla Merkel rispondeva ad una manovra diplomatica?
   Guardi, fece delle battute di vago sapore maschilista, ma non credo che sapesse nulla di quello che ha scritto il Wsj.
   Ma secondo lei la telefonata c’è stata davvero?
   Non ho motivo di dubitare.
   Quindi Berlusconi si è dimesso per colpa della Merkel?
   Conosco Napolitano da due Repubbliche per sapere che non ha dato retta.
   Quindi c’è il complotto o no?
   Non ho mai creduto alla tesi della estraneità delle pressioni internazionali.
   Qualche rimpianto sulle dimissioni?
   Nessuno. Oggi stiamo messi molto peggio e voi tirereste pece ogni giorno, sul governo di Rotondi e dei birilli vari come lui. Il colore della tavola e il numero dei grembiuli?
   Di nuovo la massoneria…
   Ma io non ho nulla contro la massoneria. Le posso citare una bella battuta di D’Alema a Buttiglione mentre scorrevano insieme la lista dei ministri del governo Dini?
   Alle battute di D’Alema mi metto sull’attenti.
   Questa era davvero deliziosa: “Rocco, un po’ di massoni in un governo vanno bene, ma troppi storpiano”.
   Non mi ha ancora detto i nomi dei due ex ministri italiani…
   Diciamo che uno dei due nel suo curriculum ha scritto molte volte “ex”, anche per incarichi più importanti.
   Il nome?
   Io non voglio prendere querele. Tanto il valore di questa notizia è politico.
   Lei ne parlò a Berlusconi?
   Secondo lei?

Noi e il Professore




di Antonio Padellaro
   Caro Direttore, sono un assiduo lettore del Fatto fin dalla sua nascita; non sono abbonato perché preferisco comprarlo dal “mio” giornalaio per cominciare con lui i primi commenti che poi proseguono con i “miei” interlocutori di via Ripetta (il macellaio, il medico, il farmacista e così via).
Mi sento quindi autorizzato a dirle che gli ultimi numeri mi lasciano interdetto.
Critica va bene ma non ad ogni costo e comunque con espressioni adeguate: con il predecessore il compito era facile tanto disgustosi erano i suoi comportamenti; ma ora è diverso, abbiamo a che fare con persone che meritano “rispetto per il loro impegno e la loro tensione morale” per dirla con Napolitano. Nel passato fui con Einaudi e De Gasperi che salvarono lira e Paese; poi con Pertini per il suo rigore; ebbi alta stima per Berlinguer; quanto a posizione politica sono stato e sto con Bobbio.
Oggi sto con Monti, senza se e senza ma; e sto con Bersani per la fatica che un uomo dabbene deve fare per controllare la “ciurma”. Tenga le mie osservazioni nel conto che crede; ma non deludete quanti guardano alla concordia per il bene del Paese. Con i più vivi auguri.
   Carlo L.
Ho scelto questa lettera perché esprime in modo affettuoso ma severo un’opinione abbastanza diffusa tra i lettori del Fatto, e mi consente quindi una riflessione sul nostro giornale mentre finisce un anno e ne comincia un altro.
Davvero stiamo esagerando con le critiche a Monti? Davvero non ci rendiamo conto di quanto siano autorevoli e perbene coloro che ci governano adesso, soprattutto se paragonati al Caimano e alla sua banda? Davvero non comprendiamo che hanno la salvezza dell’Italia nelle loro mani e che bisognerebbe lasciarli lavorare in pace?
Cercherò di rispondere. Prima, però, un passo indietro.
Quando nel novembre scorso, a causa del catastrofico spread e grazie (forse) a una telefonata della Merkel al Quirinale, il regime berlusconiano venne giù come un castello di fango, fummo a lungo molestati da chi malignamente ci chiedeva: e adesso che cosa scriverete ? Pronosticandoci una rapida emorragia di copie e magari la chiusura. Beh, un lieve calo c’è stato, dobbiamo ammetterlo, ma solo perché non avevamo previsto che nei mesi estivi, quando complici le vacanze solitamente i quotidiani vendono di meno, il Fatto sarebbe andato letteralmente a ruba. In quelle settimane la tensione per il rischio di default causato da un governo tra i più dissennati (le quattro o cinque inutili manovre) era alle stelle.
Fino a deflagrare nell'indimenticabile 13 novembre con la cacciata di Berlusconi, le famose monetine e la folla osannante.
È chiaro che il boom di copie e di ascolti tv di quei giorni non poteva durare. Lo sapevamo: l'overdose di escort, leggi vergogna, barzellette sporche, pessime figure internazionali e mascalzonate varie che a lungo avevano mantenuto l'informazione tutta in uno stato di sovreccitazione avrebbe rapidamente esaurito il suo effetto.
Era arrivato il professor Mario Monti. La quiete dopo la tempesta. Il silenzio dopo l'orribile frastuono. Ma soprattutto un bisogno diffuso di armonia, di serenità, di adesione “senza se e senza ma” ai salvatori della patria: gli stessi sentimenti così bene espressi da Carlo L. e che sono un po’ lo spirito del tempo che viviamo.
A Carlo diciamo che il Fatto non è nato contro Berlusconi ma durante Berlusconi. Che la nostra piccola missione non era quella di abbattere il tiranno (non spettava a noi) ma di affermare un principio: anche in Italia si può fare giornalismo vero senza chiedere il permesso a nessuno e affidandosi solo all'autonomia di chi scrive e alla fiducia di chi legge.
Abbiamo giudicato l'arrivo di Monti e della sua squadra un'ottima notizia, lo abbiamo scritto e continueremo ad affermarlo. Ma se i cittadini hanno tutto il diritto di esprimere il loro appoggio incondizionato, ciò a chi fa dell'informazione vera non è consentito. Quando l'arrivo dei tecnici è stato salutato da un'alluvione di melassa con l'elegia della sobrietà, del loden sobrio, del trolley sobrio e del taglio dei capelli sobrio non potevamo certo tacere e ci abbiamo riso sopra. E quando, subito, abbiamo scoperto che un superministro come Corrado Passera era gravato da un pesante conflitto d'interessi con il suo precedente incarico al vertice di Intesa Sanpaolo, lo abbiamo scritto a chiare lettere. Ma se all'inizio eravamo in perfetta solitudine che ieri sul Corriere della sera, Milena Gabanelli e Giovanna Boursier abbiano richiamato il titolare delle Infrastrutture a una maggiore trasparenza non può che farci piacere.
Sappiamo bene che la manovra era indispensabile ma se in essa al di là degli annunci rassicuranti troviamo molto rigore, poca equità e niente sviluppo, dobbiamo forse tacerlo in omaggio alla “tensione morale” di chi l'ha varata?
Certo, possiamo sembrare dei rompiscatole quando solleviamo il problema delle frequenze tv che non possono essere regalate a Mediaset. O quando denunciamo lo scandalo delle licenze gratis ai boss delle slot machine. O quando raccontiamo lo scandalo dei vitalizi distribuiti a piene mani dalla giunta Polverini. O quando pubblichiamo le incredibili note spese dell'Agenzia del territorio diretta guarda caso dalla sorella di Alemanno.
Che poi il premier ironizzi sulle 30 uova di struzzo decorate e donate “per esigenze di rappresentanza” non ci dispiace affatto. Ma se i suoi encomiabili propositi di tagliare le unghie rapaci della casta resteranno lettera morta, lo scriveremo proprio per la stima che abbiamo di lui.
Sul primo numero del Fatto assicurammo che non avremmo fato sconti a nessuno. Lo ribadiamo con forza anche se in certi casi avvertiamo anche noi il rischio di una critica che può indebolire l’ultima carta che possiamo giocarci per non finire tutti quanti nel burrone. Ma non c’è governo e non c’è emergenza che possono impedire alla libera stampa di fare il suo lavoro. Né può funzionare il sottile ricatto morale del “se non stiamo attenti torna Berlusconi”. Per la verità questo Monti non ce lo chiede. E siamo convinti che non ce lo chiederanno neppure i nostri lettori in forza del patto che abbiamo stretto con loro.
   PS. Malgrado l’assenza di Berlusconi e delle sue girl il Fatto continua a godere di ottima salute. Sì, possiamo farne tutti quanti a meno. Auguri di un felice 2012.
   Antonio Padellaro

Il pm è troppo bravo: licenziamolo




di Marco Travaglio
   Si sperava che la leggendaria sobrietà del governo tecnico comprendesse anche un’abitudine sconosciuta ai politici italiani: quella di evitare gli annunci con i verbi al futuro, limitandosi a quelli coi verbi al passato.
Non se ne può più di ministri che vanno in tv o sui giornali a dire “faremo”: la vera sobrietà è tacere finché non si è fatto qualcosa e solo allora aprire bocca per comunicarlo e spiegarlo ai cittadini.
Monti aveva cominciato bene, mantenendo il riserbo più assoluto sulla manovra e parlandone solo dopo averla varata. Purtroppo i suoi ministri fanno l’esatto contrario, sull’esempio dei predecessori, la cui logorrea era inversamente proporzionale alla concretezza.
Uno dei ministri più incontinenti è quello della Giustizia, Paola Severino che, a sentirla parlare, avrebbe già dovuto risolvere tutti i mali del settore: carceri affollate, processi lenti, sprechi di risorse, incertezza delle pene, certezza di impunità per i colletti bianchi.
Nel breve volgere di un mese ha promesso braccialetti elettronici, via libera all’amnistia, norme svuota-carceri, pene più alte per tangenti, abuso d’ufficio e falso in bilancio, nuovi reati tipo traffico d’influenze e corruzione privata, ratifica delle convenzioni anticorruzione e chi più ne ha più ne metta.
Ora, sarebbe assurdo pretendere che faccia in pochi giorni quel che gli altri non han fatto in 17 anni. Ma ci sono norme semplici semplici, poche righe e costo zero, che si potrebbero approvare subito.
Nella sua ultima intervista quotidiana (ieri al Corriere), la Severino auspica “una forte accelerazione e una specializzazione al processo civile”. Ecco: perché non favorire la specializzazione anche nel penale, che soprattutto su certi reati (mafia, corruzione, evasione fiscale, criminalità finanziaria, ambiente, sicurezza sul lavoro, colpe mediche, abusi sessuali, violenze su minori) richiede magistrati esperti e competenti su materie specifiche?
Una norma demenziale dell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella (un trust di cervelli mica da ridere) ha stabilito nel 2007 che ogni magistrato, dopo dieci anni di lavoro in un pool specializzato, deve uscirne e occuparsi d’altro. E purtroppo il Csm (complice la corrente di Md) non ha mosso un dito, anzi ha recepito con gioia, limitandosi a concedere sei mesi di proroga. Come se un’azienda che ha impiegato tempo e risorse per formare un dirigente lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo
Con questa folle regola già nel 1992, Cosa Nostra poteva risparmiarsi le stragi di Capaci e di via d’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di dieci anni. Infatti, negli ultimi anni, il bollino di scadenza per i pm come per lo yogurt ha già falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, e dal 1° gennaio smembrerà (via sei pm su nove) il gruppo torinese di Raffaele Guariniello specializzato in sicurezza sul lavoro, salute e ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping ecc.); idem per il pool milanese coordinato da Francesco Greco contro i reati finanziari (processi Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, grandi evasori, San Raffaele, Lele Mora ecc.); e tanti altri.
“Nel 2012 – avverte Guariniello – dovremo affrontare processi delicatissimi su cui il ricambio di sostituti avrà conseguenze dirompenti. I nuovi colleghi, pur bravi, impiegheranno anni per acquisire esperienza e professionalità specifiche, mentre verranno meno quelle dei colleghi uscenti”.
Aggiunge Greco: nel suo pool sulla criminalità economica “ci vorranno dai cinque ai dieci anni per ricreare lo stesso livello di professionalità. Con una perdita secca per lo Stato. È una norma di cui fatico a comprendere la ratio, specie quando tutti sostengono che occorre contrastare corruzione ed evasione fiscale”.
Ministro Severino, che senso ha dichiarare guerra alla corruzione e all’evasione e cacciare i magistrati in grado di combatterla?
Se ci risponde, smettiamo di scrivere che parla troppo.