venerdì 16 dicembre 2011

La democrazia economica




di MASSIMO GIANNINI
Non è un Paese da economia liberale. L'Italia non lo è mai stata, e oggi lo è meno che mai. La furiosa vandea delle macro e micro-corporazioni, che si ribellano alle pur timide liberalizzazioni del governo Monti, è la prova di un drammatico limite culturale: la difesa di una rendita frutta molto di più dell'apertura di un mercato.

L'operosa copertura delle categorie "in lotta", assicurata in Parlamento da una destra provinciale e illiberale, è la conferma di un tragico limite politico: garantire una lobby rende molto di più che scardinare un monopolio. Ma questo, oggi, è lo spettacolo desolante al quale stiamo assistendo, i danni del cittadino-consumatore già tartassato dalla crisi e dalla manovra. Il Paese è ufficialmente in recessione: di qui alla prossima primavera il Pil crollerà di altri due punti percentuali, nel 2013 avremo bruciato oltre 800 mila posti di lavoro. Ovunque, nelle democrazie occidentali, le liberalizzazioni sono state e sono uno dei principali fattori di sblocco dell'economia e di rilancio della crescita. Offrono un duplice vantaggio: aumentano la concorrenza (e dunque riducono prezzi e tariffe di beni e servizi) e sono a costo zero (e dunque non gravano sui bilanci pubblici).

Solo l'Italia, che non cresce e non crescerà chissà ancora per quanti anni, rifiuta di vedere questi vantaggi. Solo in Italia le liberalizzazioni sono vissute come una minaccia, e dunque vengono intralciate e sabotate da tutti: governi e Parlamenti, regolatori amministrativi e operatori economici. L'unico che ci ha provato sul serio è stato Prodi nel '96 e nel 2006 con le "lenzuolate" di Bersani: un felice paradosso di quel centrosinistra, sostenuto anche dai "comunisti".
Berlusconi, venuto subito dopo, le ha ridotte in stracci: una vergogna per quella destra di liberisti alle vongole. Oggi la marcia indietro di Monti sulle farmacie e sui taxi è un pessimo segnale. Autorizza le poche nicchie conservative ancora coinvolte dalle riforme a ribellarsi a loro volta. Dopo i farmacisti e i tassisti, ora tocca agli edicolanti che proclamano lo sciopero dal 27 al 29 dicembre. Poi verranno tutti gli altri, dai commercianti ai benzinai. Una deriva protestataria "privata" che rischia di non finire più. E che si accompagna a quella "pubblica" del Palazzo, determinato a difendere i suoi privilegi.

Il Parlamento è il primo responsabile di questa trincea consociativa. Fa sponda e amplifica le rivolte, che dalla piazza tracimano nell'emiciclo. Ma il governo dei Professori, purtroppo, ci mette del suo. Subendo passivamente le pressioni esterne, o addirittura promuovendo direttamente le concessioni interne. Stupisce e inquieta, per esempio, che oltre ad arrendersi ai farmacisti e ai tassisti, Palazzo Chigi abbia ceduto anche di fronte alla formidabile lobby autostradale. Il decreto Salva-Italia ha istituito l'Autority per i Trasporti. Nel testo originario il ministro Passera aveva escluso le concessionarie autostradali dal controllo della nuova Vigilanza di settore. In Commissione c'era stato un ripensamento, grazie a un emendamento del Pd. Ma nella notte dell'assalto alla diligenza il governo ci ha ripensato, e su pressione dell'Aiscat, presieduta da Fabrizio Palenzona (altro preclaro esempio di conflitti di interesse irrisolti) ha nuovamente escluso le Autostrade dalla competenza regolatoria e tariffaria della nuova Autority.
Ma limitarsi a governo e Parlamento sarebbe un alibi. La concorrenza non c'è anche perché le stesse autorità amministrative, che dovrebbero essere "indipendenti", finiscono per "dipendere" eccome. Una prova tangibile l'abbiamo avuta due giorni fa. Il primo atto ufficiale di
Giovanni Pitruzzella da presidente dell'Antitrust, dove ha sostituito Antonio Catricalà promosso alla presidenza del Consiglio, è stato un sorprendente via libera alla Elettronica Industriale (gruppo Mediaset) per l'acquisizione della Dmt, società proprietaria di una buona parte degli impianti di trasmissione televisiva. Una scelta inopinata, che conferma il parere favorevole dell'Agcom, ma nega l'istruttoria predisposta proprio da Catricalà, prima di lasciare l'Antitrust. Quella fusione, secondo il documento istruttorio, crea "una posizione dominante nel mercato delle infrastrutture per il 'broadcasting' televisivo". E naturalmente quella "posizione dominante" si riferisce a Mediaset. Di fatto, nasce un gigantesco monopolista dei trasmettitori e delle torri tv. E qualunque operatore televisivo voglia accedervi, per ampliare la propria capacità trasmissiva, deve passare per Fedele Confalonieri, cioè per Silvio Berlusconi. Alla nascita di questo ennesimo "trust" mediatico, e al trionfo di questa ennesima espressione del conflitto di interessi del Cavaliere, Pitruzzella ha dato il suo fattivo contributo. Oltre tutto, rinnegando il lavoro preparatorio fatto dai suoi stessi uffici.

Così muore l'economia liberale. Così soffoca la democrazia economica. E' una questione italiana, che riguarda tutti. C'è un pezzo di Sistema-Paese che sembra impermeabile di fronte al cambiamento. Ma proprio per questo l'aspettativa per quanto saprà fare questo "governo tecnico" è almeno pari alla delusione per quanto non ha fatto finora. Il sottosegretario Antonio Catricalà, nell'intervista che pubblichiamo oggi, ammette la sconfitta ma annuncia l'imminente rivincita sulle corporazioni. Prendiamo per buona la promessa. Ma il cedimento di questi giorni, di fronte alle proteste di una minoranza che conserva, e che nuoce alla maggioranza che consuma, non è un buon viatico. Da commissario europeo Monti ha piegato Bill Gates, padre padrone del colosso Microsoft. Sarebbe il colmo se da premier si piegasse a Loreno Bittarelli, "caporione" dei tassisti romani.
m.giannini@repubblica.it
(16 dicembre 2011)

Nessun commento: