giovedì 22 dicembre 2011

La trappola del pessimismo




Se l’Europa avanza per spaventi, l’Italia procede per ansie e furori. Stavolta appaiono più gravi e giustificati del solito. La recessione potrebbe trasformarsi in una nuova, grande depressione, uno spettro evocato da Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. E accadrà, se accettiamo che la delusione diventi rassegnazione.
L’ultimo furore collettivo risale all’inizio degli anni Novanta: le indagini di Mani Pulite rivelarono meccanismi nauseanti, destinati a finanziare i partiti e non solo. Noi italiani mostrammo in molti modi la voglia di cambiare: il tifo calcistico per i magistrati, i referendum di Mario Segni, l’appoggio alla Lega nascente, l’entusiasmo per Forza Italia. È andata male. Tutto quello che abbiamo saputo creare è una Seconda Repubblica velleitaria e costosa, oggi defunta e non rimpianta.
L’incolpevole pontiere verso il mondo nuovo, allora, fu Carlo Azeglio Ciampi. Oggi—alla guida di un’Italia confusa ma non (ancora) rassegnata — ci sono Mario Monti e Giorgio Napolitano. Ma, oggi come allora, il mondo nuovo non dipende da loro. Dipende da noi. I pontieri costruiscono i ponti, ma sono i popoli che devono attraversarli.
Il primo passo è un’ammissione: siamo reduci da anni di pigrizia e illusioni. Silvio Berlusconi è stato il prestigiatore più solerte, ma non l’unico. Il pubblico gli ha chiesto—tre volte — di presentare il numero. Un modo per assistere, applaudire o fischiare (dipende): senza prendersi responsabilità.
Ora quello spettacolo è finito: non ce lo potevamo più permettere. Non l’abbiamo capito da soli, hanno dovuto gridarcelo da lontano. Mario Monti ha fatto più in un mese che i predecessori in diciassette anni; il suo limite non è aver osato troppo, ma troppo poco sui costi della politica, le liberalizzazioni e la crescita. Ma neppure lui potrà avere successo, senza di noi. L’Italia non cambierà, se non vogliamo che cambi. Se non ci convinciamo di essere attori, non spettatori.
Se lo faremo, la ricompensa sarà rapida e robusta. Non è una leggenda auto-consolatoria: abbiamo davvero le risorse caratteriali per tirarci fuori da questa trincea, e batterci in un mondo difficile. La nostra capacità di invenzione e di reazione è indiscutibile. La nostra facilità di intuizione e adattamento è dimostrata quotidianamente da centinaia di migliaia di connazionali sparsi per il mondo. Perfino il reticolo sociale e familiare che ben conosciamo può aiutarci a costruire il futuro, dopo averci complicato il presente. Vorrei che presto, all’estero, scrivessero di noi: When the going gets tough, the Italians get going. Quando il gioco si fa duro, gli italiani cominciano a giocare.
Tutto questo però non serve — anzi, diventa un alibi — senza un nuovo patto nazionale. L’esistenza che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, se non cambiamo, non possiamo più permettercela. Se vogliamo l’istruzione, la sanità, le pensioni e la qualità di vita cui siamo abituati, dobbiamo lavorare meglio, lavorare più a lungo e smettere di ingannarci a vicenda.
Diciamolo: 235 miliardi di evasione annuale—otto volte la manovra appena votata—è una somma sconvolgente. Per coloro che non intendono sconvolgersi, aggiungiamo: insostenibile.
Un Paese dove ristoratori e gioiellieri dichiarano mediamente 38 e 44 euro di entrate al giorno; dove chiedere la fattura a un artigiano è un atto di eroismo fiscale (e dove fare l’artigiano insidiato da norme folli e pagamenti incerti è un eroismo professionale); dove un terzo delle famiglie controllate si finge povera per ottenere sconti e benefici; dove solo 9.870 persone dichiarano spontaneamente più di 200.000 euro l’anno — be’, un Paese così non può andare avanti. Ne occorre un altro.
Un Paese dove tutti paghiamo (meno) imposte; dove vengano assicurati pagamenti veloci e giustizia rapida; dove siano chiuse le falle che rischiano di affondare le nave (dalle municipalizzate a certe aziende sanitarie); dove la politica, se non riesce a dare il buon esempio, almeno eviti di provocare disgusto. Un Paese così non è impossibile, ed è alla nostra portata. Basta rispettarci e incoraggiarci a vicenda, invece di compatirci e deprimerci.
Siamo su un piano inclinato: o si sale o si scende. Voi, dove volete andare?
Beppe Severgnini
20 dicembre 2011

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