LUCA RICOLFI
Lo so, ci sono cose che oggi non si possono dire. Non si può
parlare dell'articolo 18, non si può dire quel che ha detto Grillo, non ci si
può sottrarre alla guerra santa contro gli evasori e gli speculatori, non si
possono difendere i ricchi (un clima così pesante e antiliberale da indurre
Alesina e Giavazzi a ricordare che la ricchezza non è una colpa). Abbiamo
bisogno di certezze e di capri espiatori. La certezza di non perdere quel che
abbiamo. I capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi
duri che viviamo.
Così, una plumbea nuvola di cecità e di conformismo sta
lentamente avvolgendo un po’ tutto e tutti.
Il governo sta
finalmente, faticosamente e meritoriamente aprendo il dossier delle
liberalizzazioni,
ma il clima che si respira è di prudenza e di sospetto, specie in materia di
mercato del lavoro. Gli altolà e gli avvertimenti scattano automatici, non per
quel che uno ha fatto effettivamente, ma già solo per quello che potrebbe aver
pensato, o avere in animo di pensare (vedi quel che è successo al ministro Elsa Fornero, rea di aver osato dire
che si doveva parlare di mercato del lavoro «senza tabù»).
In un clima siffatto, io vedo il pericolo che, nel dibattito
pubblico dei prossimi mesi, si
mettano da parte alcuni dati di fondo, che sono cruciali per prendere
decisioni sagge, ma appaiono urticanti o «politically taboo» a quasi tutti i
soggetti in campo. Quali dati? Il primo dato è che la pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo
sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%). Questo è un handicap di fondo dell'Italia, che è stato
ulteriormente aggravato dalle manovre finanziarie di Berlusconi, e in misura
ancora maggiore da quella di Monti. Questo livello abnorme di tassazione si
accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione
(anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non
parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti
degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono
purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi. Mi
spiace doverlo dire, ma mi sono convinto che oggi in Italia un sentimento di
paura verso l'Amministrazione pubblica sia ampiamente giustificato anche quando
non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare
che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi
anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio.
Il secondo dato di fondo è la strabica selettività della repressione dell'evasione. Ci
sono intere zone del Paese in cui quasi tutto è in nero, si sa perfettamente
dove si annidano gli abusi più clamorosi (compreso il caporalato e varie forme
di sfruttamento del lavoro degli immigrati che ricordano i tempi della
schiavitù), ma si preferisce chiudere ipocritamente un occhio, concentrando
l'azione sulle porzioni del Paese in cui l'evasione c'è, ma è molto più
contenuta. Pur di salvare il principio astratto che il lavoro deve essere
pagato decentemente e iperprotetto, Stato
e sindacati tollerano di buon grado che in un quarto del territorio nazionale si possa operare in
modo del tutto irregolare, non solo sul versante dei salari ma su quasi tutto
il resto (dal mancato pagamento del canone Rai alla violazione di ogni norma
igienica, di sicurezza, antinfortunistica, etc.). Il fatto è che se volesse
intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un
quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di
lavoro, che si reggono sui bassi salari.
C'è un terzo dato di fondo, che mi pare fondamentale
ora che si sta per aprire lo spinoso capitolo del mercato del lavoro: da un paio di anni l'Italia sta
riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di
attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno
susseguendo senza interruzione dal 2008. Un po' dipende da un fatto nuovissimo,
e cioè che questa crisi è, dal 1945, la prima in cui si prende in
considerazione non solo l'eventualità di un double dip (doppia recessione, la
prima nel 2009, la seconda nel 2012), ma anche l'ipotesi che la crescita non tornerà mai più, come ha già tristemente
sperimentato il Giappone negli ultimi due decenni. In queste condizioni a molti
pare inutile resistere in attesa di una ripresa che forse non ci sarà né l'anno
prossimo né mai. Un po', però, dipende anche da un altro dato che ci si rifiuta
di vedere, e cioè che lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più
proibitivo sul piano dei costi di produzione.
Quando dico costi di produzione, però, non intendo solo le voci
che sono al centro della prossima trattativa governo-Confindustria-sindacati.
E' chiaro che salari e profitti sono troppo tassati, è chiaro che le imprese
medio-grandi hanno troppi vincoli, è chiaro che in Italia si fa troppo poca
ricerca, è chiaro che c'è troppo poca concorrenza sul mercato interno, è chiaro
che bisogna aumentare la produttività del lavoro. E tuttavia, attenzione, non
possiamo esagerare con la colpevolizzazione dei produttori, siano essi le
imprese (cui si rimprovera cattiva organizzazione e scarsa innovazione), i
lavoratori autonomi (cui si rimprovera di evadere le tasse), o i lavoratori
dipendenti (cui si rimprovera di non essere abbastanza produttivi). Come tutti,
vedo anch'io diversi furbi e farabutti che evadono spudoratamente il fisco, ma
sempre più frequentemente mi capita di incontrare persone per bene, che
gestiscono in modo efficiente un'attività, ma si trovano ormai di fronte al
dilemma se chiudere o «fare del nero», e per lo più - proprio perché sono
persone oneste - scelgono di chiudere.
Il tasso di
occupazione, la produttività e la competitività non dipendono solo dai rapporti fra capitale e lavoro,
come sembra suggerire l'attuale enfasi sulle relazioni industriali, ma anche da
alcune fondamentali condizioni esterne all'impresa: il costo dell'energia, il costo del credito, i tempi di pagamento
della Pubblica amministrazione, il costo degli adempimenti burocratico-fiscali,
l'efficienza della giustizia civile. E' ingenuo pensare che l'operaio
tedesco, che guadagna di più di quello italiano, sia più produttivo
essenzialmente perché più stakanovista o meglio attrezzato dal suo datore di
lavoro. Il valore aggiunto di un'impresa è la
differenza fra il valore della sua produzione e i suoi costi, e lo
svantaggio dell'Italia su questi ultimi è abissale. Fatti 100 i costi unitari
dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i
costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per
l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica
amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti (senza contare gli ulteriori
aggravi prodotti dalle recenti manovre «salva Italia»).
Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più
pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro
regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime
manovre, il
quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia
non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna. Da questo punto di vista i governi
che si sono succeduti negli ultimi anni mi paiono tutti molto simili. Sotto la
pressione dei mercati, non hanno mancato di chiederci dei sacrifici, per
«rimettere a posto i conti pubblici». Ma ben poco hanno fatto per abbassare in
modo apprezzabile i costi di chi produce ricchezza, quasi a lasciar intendere
che il problema della produttività riguardi essenzialmente le parti sociali.
Temo sia stato un errore, e che la chiusura di tanti negozi, attività, imprese,
che osserviamo così spesso oggi nelle nostre città, ne sia l'amara conseguenza.
Nessun commento:
Posta un commento