martedì 5 agosto 2008

LE SUE ITALIE


Brano estratto dall'introduzione di Pino Corrias al Bavaglio, di Marco Lillo, Peter Gomez e Marco Travaglio


Intanto c’è quella di sempre. Quella delle origini dell’avventura commerciale, che Berlusconi ha coltivato in vent’anni di iridescenza culturale, nutrendone i sogni, le aspirazioni, le paure, con lo spettacolo quotidiano del proprio mondo vincente, semplificato e consumista: «Con le mie tv ho cambiato la vita degli italiani. Li ho resi più felici».

È un’Italia indifferente alla politica. Non del tutto disarmata, anche se ipnotizzata dal lieto fine. È il suo pubblico televisivo. Cresciuto (o invecchiato) dentro la sua avventura. Irradiato da un idem sentire al punto di trasformarsi, dopo la stagione di Mani pulite che terremotò tutto, compreso la politica, in un elettorato disponibile a colmarne i vuoti. E che nel corso degli anni si è sempre più identificato in lui, nelle sue ossessioni per il successo, il denaro, l’immagine, la paura dei comunisti. Che esulta e che odia con lui. Che disprezza i politici di professione, diffida dei magistrati, sente lo Stato come un intruso e le tasse come un’ingiustizia.

A quell’Italia se n’è aggiunta una seconda. Quella che d’abitudine e per differenti ragioni, viveva e vive sottotraccia, presa dal lavoro e da orizzonti privati, magari ribelle alle regole, ma in fondo conservatrice, furba, però anche dedita all’ordine, cattolica, ma con buon senso peccatrice, insofferente alle burocrazie, eppure burocratica nei desideri. Quella piccola Italia pervasiva al punto di diventare paesaggio comune, come le piazze, come il traffico di immensa provincia, ben radicata nei differenti dialetti e aspirazioni e riti domenicali. Quella che un tempo si accomodava dentro la scia multiforme della Democrazia cristiana e dei partiti di centro. Non del tutto sicura di rivelarsi, se non in famiglia, al bar, in laboratorio.

Interessata alla politica, almeno qualche volta, ma delusa dai politici per le loro inconcludenze e che, fondatamente, sospetta di mantenere.

Ma in quest’ultima bufera elettorale si è aggiunta una terza fetta d’Italia, quella che un tempo ha anche votato a sinistra, che abita nelle province del Nord e del Centro. Non ideologica. Spaventata dalla crisi economica. E da quel tavolo vociante dei vertici della Sinistra - una trentina tra segretari e vice e portavoce dello zero virgola qualcosa, accalcati come in una riunione di condominio, ma coi vestiti firmati e l’acqua minerale - che appariva ogni sera dentro la scatola dei telegiornali. Ma che al di là dei vertici combinava poco, litigava molto, appassionata di solo debito pubblico, dall’Europa. E dalla lotta quotidiana agli evasori guidata dall’odiato Vincenzo Visco. Per il resto irresoluta. Incerta come un’orchestra sbagliata. Questa fetta d’Italia è fatta anche di operai, piccoli commercianti, artigiani, precari della scuola, disoccupati. Che a forza di delusioni, attese frustrate, arrabbiature, decide di voltare le spalle alla Sinistra. Sceglie in parte l’astensione. In parte la Lega. In parte, e all’ultimo momento, il Cavaliere.

Il nuovo blocco del berlusconismo non sarà compatto, ma intanto è maggioritario. Sembra moderno. Emette energia. Ha sedotto persino i poteri forti, la grande industria, il sistema bancario. Ricicla una infinità di reduci d’altre avventure, a cominciare da quella craxiana, specialmente nel comparto economico: Tremonti, Brunetta, Sacconi. È irresistibile per i pregiudicati. Promette di allentare i rigori fiscali. Garantisce una stagione di lavori pubblici. È magnanima con tutte le perigliose biografie extra legali (dagli evasori, ai faccendieri, agli indagati per mafia). Ma con i poveracci, gli immigrati e i Rom: tolleranza zero.

Promette decisioni rapide. Incarna identità anche se multiple. E altrettanti interessi, non importa quanto contraddittori, transitando da quelli delle partite Iva del Nordest, al Sud clientelare o assistito, passando per le grandi città, il ceto medio che si impoverisce, e i milioni di precari dispersi nelle microaziende. Polverizzati nel labirinto delle nuove professioni che ha margini imprecisi, spesso fattura in nero, e campa nel sommerso.

È un blocco sociale per lo più pragmatico, abituato a cavarsela, che conosce la vita vera, lavora, ma non disdegna di muoversi per famiglie di appartenenza, clan, amicizie. Non si scalda troppo per gli scandali, i privilegi di casta, le ingiustizie, il così fan tutti. Conosce la differenza tra l’idealismo e le raccomandazioni. Si considera adulta. Non ama le illusioni. Ma in questo cambio di stagione finisce abbagliata dalla più grande di tutte, quella arcoriana e la sua missione per salvare il Paese.

Non conta nulla che sia proprio lui, il Cavaliere, a smentirla, almeno in una manciata di occasioni. Per esempio con Montanelli e Biagi: «Sono entrato in politica per salvare le mie aziende e per non finire in galera». O che sia Marcello Dell’Utri, in un’intervista del 2003, a raccontare quella vera: «C’era l’aggressione delle Procure e la situazione della Fininvest con 5mila miliardi di debiti. Franco Tatò, che era l’amministratore delegato del gruppo, non vedeva vie d’uscita: “Cavaliere, dobbiamo portare i libri in tribunale”... Poi i fatti, per fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire che senza la decisione di scendere in campo con un suo partito, Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe finito come Angelo Rizzoli, che con l’inchiesta P2 andò in carcere e perse l’azienda».

Chi gli crede, crede alla sua versione con il sorriso incorporato: «Questo è il Paese che amo». Non pensa al suo passato, quando lo vota, ma al proprio futuro. Confida nelle ragioni seminate in quei primi mesi del 1994, durante la discesa in campo, che si sono diffuse come un imprinting e una malattia che non passa più: è ricco, ci arricchirà, è un vincente, vinceremo con lui, è un risolutore di problemi, risolverà anche i nostri. Ama davvero il suo Paese, amerà anche noi.

Sempre immaginando, o addirittura sentendo, che almeno un po’ di quella luce accumulata dentro la sua biografia splenda per tutti. Come un immenso specchio. A patto che si creda nel suo sorriso carico di promesse. Nella sua esperienza, nei suoi disegni.

Una cosa soltanto può interferire con l’idillio, mettendolo in pericolo. Che qualcuno annerisca lo specchio e la luce. Magari un magistrato con «finalità di propaganda politica». Oppure una legge per quella pedanteria burocratica del cosiddetto conflitto di interessi, che certi giornali reclamano per pura «ideologia dell’odio», e «cultura dell’invida», e «dispetto».Generando quel sensazionale sentimento prossimo alla condivisione collettiva di tutti i beni del leader, compreso il suo destino, incarnato in un corpo che di anno in anno ringiovanisce (segnale magico, non chirurgico) e circondato da immensa ricchezza: le televisioni, i giornali, le assicurazioni, i calciatori, le ville, i terreni, gli aerei, le barche, le mogli, le amanti, le montagne di azioni, i miliardi di euro. Che naturalmente crescono ben protetti nelle casseforti dell’uomo più ricco d’Europa, ma funzionano come una promessa collettiva, magari più prosaica d’alti ideali, ma infinitamente più efficace di quell’altro slogan a vanvera spacciato dalla Sinistra: «Si può fare».

Una ricchezza smisurata capace di assorbire qualunque ombra. Legittimata non solo dal potere che emana, ma anche dal lavoro incorporato. Ammirevole più per il primo scalino della salita («Da ragazzino vendevo temi, poi ho cominciato con le case») che per l’ultimo, sia pure la guida del governo del Paese. Oscura? Inspiegabile? Sospetta? E allora Agnelli, i petrolieri, De Benedetti? Comunque sia, ben meritata, e assai più legittima di un solo paio di scarpe, da 500 euro, di D’Alema, per non parlare di Ikarus, la sua barca.

Il consenso sta in quella vibrazione. In quel comune sentire ostile al mondo delle élite. Insofferente a quei poteri ancora tetri che abitano i palazzi della politica e dei tribunali. Agli snob che frequentano i salotti, ai radical chic che pontificano, agli intellettuali inconcludenti, ai privilegiati parolai che scrivono sui giornali, come dice il ministro Giulio Tremonti.

Un coro, una sinfonia. Ora l’apoteosi. Capace di trasformare quella vibrazione in una solidarietà crescente, e insieme in una rotonda indifferenza, per quella anomalia europea che fa di Berlusconi il primatista mondiale di interessi in permanente conflitto. Lasciando che la sua propaganda si occupi di liquidare quel primato con un’alzata di spalle: «È un problema che proprio non esiste». Non è rilevato neppure dai sondaggi, figuriamoci dagli elettori. Che a modo loro l’hanno già risolto. Ah, sì, e come? Votando Berlusconi.


2 commenti:

Unknown ha detto...

La sinistra non ha ancora capito queste cose. Adesso il Pd per esempio vuole raccogliere le firme per salvare l'Italia da Berlusconi, ma l'Italia, o meglio le Italie, Berlusconi l'han votato e lo sostengono.
Carolina

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Compra il libro, Carolina, io lo sto finendo di leggere.
Ti renderai conto che siamo a un passo dalla dittatura, sia pure dolce.