L'Unità
9 agosto 2008
Che l’economia italiana si fosse impantanata in una stagnazione lo si sapeva e ora i dati dell’Istat non fanno che confermare questa drammatica realtà. Del resto, si sa che quando i sistemi economici più evoluti prendono un raffreddore, quello italiano prende una polmonite: da tempo è così e nulla è stato fatto per modificare questa particolare, grave ed ormai consolidata debolezza.
È una realtà drammatica perché, con quello che sta accadendo nel mondo, una stagnazione della ricchezza prodotta significa un impoverimento del Paese nel suo complesso.
È una realtà drammatica perché, con quello che sta accadendo nel mondo, una stagnazione della ricchezza prodotta significa un impoverimento del Paese nel suo complesso.
Il forte rincaro dell’energia e di molti altri prodotti di base, alimentari e non, a fronte di un reddito stagnante significa, infatti, che è giocoforza ridurre le quantità acquistate; significa, dunque, una riduzione del benessere medio. E, se si riduce il benessere medio, è evidente che si allarga a macchia d’olio l’area del disagio, ossia di quanti rispetto a quella media si ritrovano dalla parte sbagliata: la maggior parte dei lavoratori dipendenti, degli autonomi, dei pensionati. Ci sono zone d’Italia, e neppure delle più povere, nelle quali sta diventando un fenomeno statisticamente rilevante il consumo di latte che aumenta con l’approssimarsi della fine del mese perché c’è gente che non può permettersi altra alimentazione che, appunto, una tazza di latte ed una fetta di pane.
L’impoverimento ha due aspetti, quello economico e quello sociale. L’aspetto economico è dato da un sistema produttivo che solo in parte si è evoluto in funzione del mondo nel quale deve operare. La maggior parte del sistema è rimasto ad offrire prodotti che i Paesi a basso costo offrono a prezzi che sono frazioni dei costi che devono essere sostenuti in un Paese evoluto come l’Italia. Nell’accumulo di questo ritardo è stato aiutato, quasi incentivato, da una politica che, per inseguire un immediato ed effimero consenso, ha speso fior di risorse per consentirgli di non cambiare, ad esempio riducendo la tassazione (e dunque a spese dell’intera collettività nazionale) anziché creare un ambiente più favorevole allo sviluppo ed all’innalzamento della produttività investendo in strade, trasporto ferroviario, ricerca, reti. Anziché alzare l’asticella che le imprese devono saltare per competere nel mondo globalizzato con prodotti ad alto valore aggiunto, è stata loro vieppiù abbassata. Certo, la riduzione delle tasse sull’attività produttiva si concreta immediatamente in un aumento dei profitti e, dunque, nel consenso dei tanti microimprenditori che formano il grosso del nostro sistema produttivo, ma poi non ci si deve lamentare se il Pil ristagna, la produttività non cresce e le imprese non ce la fanno a pagare salari se non di fame. È disperante il fatto che nel panorama parlamentare non c'è forza politica che abbia il coraggio di criticare la logica seguita negli ultimi anni per proporre un cambio di passo al fine di indurre il sistema produttivo a quelle trasformazioni radicali senza le quali, nel mondo del XXI secolo, l’Italia non potrà che arretrare.
C’è poi un aspetto sociale. Senza opportuni interventi, un impoverimento medio del Paese, specie se dovuto a fattori esterni, si distribuisce in maniera fortemente disuguale sulle diverse categorie di reddito. A soffrirne sono le categorie a più basso reddito perché sulla composizione della loro spesa mensile pesano maggiormente e più direttamente i rincari dell’energia, dei carburanti, delle derrate alimentari. Il governo, anziché impegnarsi in interventi compensativi, ha aggiunto del suo sulla sperequazione distributiva che spontaneamente si va producendo: ha abolito l’Ici sulle abitazioni delle categorie più abbienti, ha detassato le cosiddette componenti variabili del salario, ha tagliato fondi a destra e a manca inducendo i centri di spesa, statali e decentrati, a ridurre le prestazioni anche, se non soprattutto, nell’assistenza alle categorie più disagiate. Poi ha preteso di rifarsi una verginità sociale con iniziative come la social card ed altre misure meramente redistributive che nell'immediato non tolgono che qualche secchio dal mare della povertà, ed in prospettiva sono del tutto inutili perché non hanno nulla a che fare con il recupero di una capacità del sistema produttivo di generare un reddito almeno sufficiente per difendere il livello di benessere raggiunto.
Così il cerchio si chiude precludendo ogni prospettiva che il declino economico e sociale, evidente nelle statistiche come nella esperienza di ciascuno di noi, possa essere arginato.
L’impoverimento ha due aspetti, quello economico e quello sociale. L’aspetto economico è dato da un sistema produttivo che solo in parte si è evoluto in funzione del mondo nel quale deve operare. La maggior parte del sistema è rimasto ad offrire prodotti che i Paesi a basso costo offrono a prezzi che sono frazioni dei costi che devono essere sostenuti in un Paese evoluto come l’Italia. Nell’accumulo di questo ritardo è stato aiutato, quasi incentivato, da una politica che, per inseguire un immediato ed effimero consenso, ha speso fior di risorse per consentirgli di non cambiare, ad esempio riducendo la tassazione (e dunque a spese dell’intera collettività nazionale) anziché creare un ambiente più favorevole allo sviluppo ed all’innalzamento della produttività investendo in strade, trasporto ferroviario, ricerca, reti. Anziché alzare l’asticella che le imprese devono saltare per competere nel mondo globalizzato con prodotti ad alto valore aggiunto, è stata loro vieppiù abbassata. Certo, la riduzione delle tasse sull’attività produttiva si concreta immediatamente in un aumento dei profitti e, dunque, nel consenso dei tanti microimprenditori che formano il grosso del nostro sistema produttivo, ma poi non ci si deve lamentare se il Pil ristagna, la produttività non cresce e le imprese non ce la fanno a pagare salari se non di fame. È disperante il fatto che nel panorama parlamentare non c'è forza politica che abbia il coraggio di criticare la logica seguita negli ultimi anni per proporre un cambio di passo al fine di indurre il sistema produttivo a quelle trasformazioni radicali senza le quali, nel mondo del XXI secolo, l’Italia non potrà che arretrare.
C’è poi un aspetto sociale. Senza opportuni interventi, un impoverimento medio del Paese, specie se dovuto a fattori esterni, si distribuisce in maniera fortemente disuguale sulle diverse categorie di reddito. A soffrirne sono le categorie a più basso reddito perché sulla composizione della loro spesa mensile pesano maggiormente e più direttamente i rincari dell’energia, dei carburanti, delle derrate alimentari. Il governo, anziché impegnarsi in interventi compensativi, ha aggiunto del suo sulla sperequazione distributiva che spontaneamente si va producendo: ha abolito l’Ici sulle abitazioni delle categorie più abbienti, ha detassato le cosiddette componenti variabili del salario, ha tagliato fondi a destra e a manca inducendo i centri di spesa, statali e decentrati, a ridurre le prestazioni anche, se non soprattutto, nell’assistenza alle categorie più disagiate. Poi ha preteso di rifarsi una verginità sociale con iniziative come la social card ed altre misure meramente redistributive che nell'immediato non tolgono che qualche secchio dal mare della povertà, ed in prospettiva sono del tutto inutili perché non hanno nulla a che fare con il recupero di una capacità del sistema produttivo di generare un reddito almeno sufficiente per difendere il livello di benessere raggiunto.
Così il cerchio si chiude precludendo ogni prospettiva che il declino economico e sociale, evidente nelle statistiche come nella esperienza di ciascuno di noi, possa essere arginato.
COMMENTO
E' quello che accadrà, un impoverimento complessivo del paese Italia, a danno dei ceti socialmente più deboli, un arretramento culturale oltre il tollerabile, il ritorno di povertà e miseria.
Gli italiani di oggi conosceranno oggi quello che gli italiani di ieri hanno sofferto: la fame.

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