
Lidia Ravera
L'Unità
24 settembre 2008
E soprattutto c’è anche il fatto, incontrovertibile, che i padri non sono più quelli di una volta. Quelli che, per intenderci, mantenevano la famiglia per tutta la vita, al servizio di matrimoni indissolubili contratti con fanciulle totalmente dedite alla procreazione e alla cura del nido, condannate innocenti a scontare un perpetuo stato di minorità. Il cognome dell’uomo veniva, all’epoca e fino a ieri, assunto dalla donna che, le piacesse o no, perdeva il suo, in una spoliazione simbolica per la quale non nutriamo alcuna nostalgia. Il cognome dell’uomo veniva imposto al bambino come un marchio di proprietà. I bambini erano messi al mondo dalle donne e educati dalla assoluta autorità degli uomini. Oggi non è più così. Le donne, è vero, continuano a mettere al mondo i bambini, poiché soltanto nel loro corpo si nasconde il dispositivo che consente la procreazione, però, sempre più spesso, si trovano anche a educarli, mantenerli, crescerli, concedere o negare permessi, reprimere o premiare eccetera eccetera. I matrimoni, non più indissolubili, si dissolvono con una certa frequenza. Gli uomini vanno, fanno altri figli con altre donne, o trovano donne che non vogliono figli o ne hanno già e sono disposte a fermarsi. Possono continuare a frequentare i bambini nati dal loro seme o sparire, possono contribuire al mantenimento e imboscarsi. Del resto: finchè una donna non li avverte, gli uomini non hanno alcuna possibilità di scoprirlo, che sono sul punto di diventare padri.
La paternità è una scelta culturale, la maternità è un fatto fisico. Possono fare il padre o non farlo più, gli uomini. Le donne restano sempre lì, accanto ai loro figli, restano madri. Per vocazione, per natura, per istinto, per convenzione, per tradizione... non so, comunque non scappano, non mollano. Le madri sono madri per sempre, non esistono le ex madri, come non esistono gli ex assassini: se hai dato la vita, se hai tolto la vita farai sempre i conti con quello che hai fatto. Nel bene, nel male. Dolorosamente, felicemente, nel profondo. Quindi: era ora, certo che era ora, si è insistito anche troppo a lungo, nell’imporre il nome del padre a bambini che possono perderlo da un momento all’altro, il padre, e allora il nome si svuota come il carapace di un granchio abbandonato sulla battigia. Naturalmente, se è la donna a chiederlo, se ci tiene, se, magari, si sente più protetta, va bene anche il “patronimico”. Diciamo che il passo avanti, anche in questo caso come nel caso dell’interruzione di gravidanza, è aver sancito il diritto di scegliere.
Peccato che le leggi non si fanno in Corte di Cassazione.
Ratificherà, il governo di centrodestra (il nostro centrodestra, non un centrodestra qualsiasi) con una opportuna modifica del diritto di famiglia, la saggia decisione dei giudici? Non credo. No, non perché dal Governo non mi aspetto niente di buono, ma perché il diritto di dare ai figli il proprio nome è anche un segno di rispetto verso le donne, un riconoscimento del loro essere cittadine a pieno titolo. E questo centrodestra, finora, di rispetto per le donne, ne ha dimostrato davvero poco.
Va da sé, come sempre, che sarei ben felice di sbagliarmi.

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