domenica 28 settembre 2008

Il peso della crisi finanziaria



Loretta Napoleoni
L'Unità
27 settembre 2008


Hollywood non avrebbe potuto produrre una sceneggiatura migliore di quella che da due settimane Wall Street offre al mondo. Come definirla? Avvincente, esilarante e totalmente imprevedibile. Peccato che non si tratti di un film ma della vita di 250 milioni di americani. La sensazione è che se non arrivano gli effetti speciali, l’economia americana, pari al 22% di quella mondiale, retrocederà in serie B, tra i paesi in via di sviluppo. Con il salvataggio delle banche l’indebitamento nazionale salirà al 70% del Pil e questo senza spendere un soldo per soccorrere i 35 milioni di americani, e cioè l’11% delle famiglie, che già sono sul lastrico.


Ma Washington non può permettersi gli effetti speciali, non ha neppure i soldi per salvare le banche, figuriamoci arginare la recessione!


È questo il nocciolo degli scontri politici di questa settimana, zuffe inferocite perché a ridosso delle elezioni americane. La capitale è ormai teatro di lotte fratricide tra le lobby di tutti i tipi e i membri del congresso, invece di fare quadrato come i Padri Fondatori, sono trascinati in negoziazioni che sono violente baruffe elettorali. Le sorti dell’economia, dunque, decideranno chi sarà il nuovo presidente.


Eppure nessun partito è più responsabile dell’altro per l’impoverimento dello Stato e per il cataclisma finanziario che da Wall Street si sta abbattendo sul capitalismo occidentale. Dalla caduta del Muro di Berlino tutti i capi di stato occidentali, da Blair ad Aznar, da Clinton a Berlusconi, hanno progressivamente abbandonato la manovra fiscale.


Come dimenticare la celeberrima frase di Bush padre: «guardate bene le mie labbra, non aumenterò le tasse». Il Tacherismo e la Reagonomics poggiavano sullo sgravio fiscale e la privatizzazione dello Stato, da allora l’incidenza delle imposte dirette sui redditi alti è scemata fino a diventare ridicola. Lo Stato quando ne ha bisogno si indebita, solo la follia irachena è costata all’America 3.000 miliardi di dollari, quasi cinque volte il costo del salvataggio delle banche proposto dalla Riserva Federale e dal Tesoro.


Questa filosofia è anche alla base della delega del funzionamento dell’economia a un branco di laureati delle business school americane ed europee, giovanotti imbottiti di teorie neo-liberiste. Sono state queste stesse scuole che negli anni 80, per giustificare tasse universitarie di 100mila dollari l’anno, hanno diffuso nel mondo l’idea che i loro laureati dovevano percepire stipendi da favola perché in possesso di doti manageriali «speciali».


Ecco i numeri di questa straordinaria campagna pubblicitaria: secondo l’Economic Policy Institute di Washington, nel 2007 i compensi dei manager alla guida delle maggiori società americane erano 275 volte più alti del salario medio degli impiegati, negli anni 70 erano solo 35 volte più alti.


Questa concezione è talmente radicata che la proposta di equiparare i salari di questi signori a quelli dei grandi manager del settore statale è stata criticata da alcuni membri del congresso perché «per far funzionare il piano di salvataggio c’è bisogno delle menti migliori e se riduciamo loro lo stipendio da 5 milioni a 50,000 dollari l’anno le perderemo».


C’è da chiedersi dove andranno tutte queste menti, quale banca è oggi in grado di garantire stipendi da pre-crollo? E non sarebbe forse meglio liberarsi di chi ha portato alla bancarotta i pilastri del capitalismo finanziario? L’ultimo a crollare questa settimana è la Washington Mutual, la maggiore banca americana a fallire, acquistata in extremis da J.P. Morgan Chase, la stessa che la scorsa primavera comprò con i soldi della Riserva Federale la Bearn Stearns.


Nella giungla finanziaria quotidiana gli scenari cambiano in un batter d’occhio, ecco cosa rende questa sceneggiata imprevedibile. Chi è costretto a recitarci, però, per fare previsioni tiene d’occhio alcuni indicatori economici chiave, come il mercato interbancario. Qui le banche si prestano soldi a tassi più alti del tasso d’interesse. Ebbene questo mercato sta giorno dopo giorno scomparendo e il poco contante disponibile è ormai a tassi proibitivi.


Chi ha soldi li deposita nei forzieri delle banche centrali, dove percepisce meno dell’1% d’interesse o compra titoli di stato. Il motivo è semplice: il mercato non si fida più del management privato, alla guida del processo di salvataggio vuole uno stato che si accolli tutte le responsabilità. E la Riserva Federale ed il Tesoro sanno bene cosa vuol dire questo voto di sfiducia, è per questo che hanno chiesto 400 miliardi di dollari per rivitalizzare il mercato interbancario ma nessuno ha raccolto la richiesta perché invendibile all’elettorato a cinque settimane dal voto. Eppure il pericolo più immediato per l’economia americana e per quella mondiale è che si prosciughi la liquidità interbancaria e le banche si ritrovino senza soldi per far fronte alle operazioni di cassa giornaliere. Cosi iniziò l’assalto alle banche dopo il ’29. A Wall Street c’è già chi sta studiando come meglio inserire questo ricordo nella scenografia della prossima settimana.


27 SETTEMBRE 2008

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

PENSATE UN PO': OTTO ANNI DI GOVERNO REPUBBLICANO E IL DEBITO PUBBLICO U.S.A. E' SCHIZZATO AL 70% DEL PIL !
IO MI AUGURO CHE VINCA OBAMA.