
Luca Neri
L'Unità
24 settembre 2008
La contesa vede da una parte le quattro major internazionali della musica (Emi, Sony Bmg, Universal, Warner), che controllano con una miriade di etichette e gran parte del mercato in tutto il mondo, che attraverso la Fimi (la Federazione Industria Musicale Italiana) hanno sporto denuncia e offerto supporto tecnico alle indagini. Dall’altra ci sono invece quattro cittadini svedesi, che pubblico ministero e guardia di Finanza accusano di gestire appunto The Pirate Bay, un motore di ricerca per file da scaricare con il peer-to-peer. E il punto è se le attività degli utenti del sito (oltre 12 milioni di persone in qualsiasi momento), più un nome che pare una confessione, siano sufficienti a creare un sospetto di reato così grave da giustificare l’imposizione di un blocco senza processo per tutti gli utenti internet italiani.
«Seguendo questa logica, - sbotta Peter Sunde, portavoce di The Pirate Bay, - immagino che potremmo essere denunciati anche come una minaccia per la navigazione in mare!» Sunde, che ha appena compiuto 30 anni, aggiunge: «The Pirate Bay non ha nulla a che fare con la violazione del copyright, così come non ha nulla a che fare con l’arrembaggio delle navi. Dire che siamo colpevoli per via del nostro nome è stupido come dire che qualcuno va messo in galera perché di cognome si chiama Malandrino». Lui sostiene invece che The Pirate Bay è un sito politico: «Abbiamo scelto di chiamarci pirati perché vogliamo riappropriarci di un termine che le major del copyright hanno distorto per criminalizzare chi crede in un nuovo modello di distribuzione della cultura. Per le multinazionali The Pirate Bay è particolarmente irritante, perché non abbiamo paura di dire apertamente che loro hanno perso il controllo della distribuzione, che il loro monopolio è finito, e loro non vogliono che la gente lo capisca». Simili affermazioni sembrano effettivamente mandare in bestia la controparte.
Enzo Mazza, presidente della Fimi, arriva a paragonare Sunde e i suoi allegri compari con i simbionesi, il gruppo armato statunitense degli anni 70 famoso per il rapimento di Patty Hearst (ma i simbionesi ammazzarono almeno un paio di persone, di copyright violato ancora non è morto nessuno…). In Svezia, invece, l’idea che il file sharing (ovvero la condivisione d’ogni sorta di prodotti culturali - film, musica, serie tv, software, libri - protetti o no dal copyright), possa avere una legittimità, quando avviene fra privati, senza fini di lucro, non è assolutamente una posizione estrema. Non solo esiste da due anni un Partito Pirata (popolarissimo fra gli studenti) ma persino un drappello di parlamentari del Partito Moderato (che fa parte della coalizione di governo) si è schierata a favore dell’idea.
Sunde contrattacca quindi sostenendo che le multinazionali dell’audiovisivo hanno scelto l’Italia per chiedere l’oscuramente del sito dei pirati proprio perché nel nostro paese è poco conosciuto, ha pochi utenti, e, soprattutto, le idee che ci stanno dietro non hanno ancora attecchito: «Il punto qui non è bloccare The Pirate Bay in un paese dove non siamo nemmeno un bersaglio di alto profilo. Per le major sarebbe invece molto importante poter vantare l’Italia come una piuma nel cappello, per creare un precedente a livello europeo e spingere altre nazioni a bloccarci nello stesso modo». Le argomentazioni del ricorso contro il blocco, presentato per conto di Sunde da due giovani avvocati cagliaritani (Giovanni Battista Gallus e Francesco Micozzi), possono apparire quindi come roba da azzeccagarbugli ai non addetti ai lavori. Lo stesso vale per l’ordine di sequestro del pubblico ministero Giancarlo Mancusi che oggi sarà riesaminato dal tribunale. Ma la posta in gioco è chiaramente più ampia. È giusto censurare un sito che non è stato condannato? È sensato imporre ai provider internet il ruolo di poliziotti del copyright? Come si concilia la rigidità delle norme correnti con la realtà che il popolo del peer-to-peer conta ormai milioni di persone comuni?

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