La Stampa
8 settembre 2008
Gli italiani amano denigrarsi, sparlano del proprio Paese e delle sue disfunzioni con un narcisistico compiacimento. Guai però a toccarne gli aspetti più profondi, il «carattere nazionale», dentro il quale vige tenace l’immagine degli italiani «brava gente». Quasi incapaci di far male a una mosca, e quando capita è per cause di forza maggiore. Eppure, a dispetto di questo inossidabile stereotipo, settant’anni fa esatti questo Paese è stato capace di sfoderare una legislazione razziale che non fu seconda a nessuno. Nemmeno alla Germania nazista, se restiamo sul piano dei documenti giuridici con cui la storia si racconta.
«Leggi che suscitarono orrore negli italiani rimasti consapevoli della tradizione umanista e universalista della nostra civiltà», ha ricordato il presidente Napolitano parlando delle leggi razziali del 1938 come mortali apripista della Shoah. È tutto terribilmente vero. Il censimento degli ebrei italiani che nell’agosto di quell’anno fu l’astuta premessa per una applicazione «a tappeto» delle leggi razziali emanate nell’autunno successivo, costituì dopo l’8 settembre 1943 un comodo strumento per i tedeschi a caccia di stücke («pezzi» come loro chiamavano i deportati) per i vagoni merci, i campi di sterminio, i forni crematori.
Le leggi razziali, in cui «Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e per volontà della nazione re d’Italia - imperatore d’Etiopia» decreta e firma i provvedimenti insieme con Mussolini, sono un vero monumento all’infamia. Stabiliscono una serie di restrizioni che vanno dal divieto di contrarre matrimonio misto a quello di firmare manuali scolastici, proibiscono agli ebrei italiani di avere dipendenti, di essere dipendenti di enti statali, banche, assicurazioni, di prestare servizio militare, possedere terreni e aziende. Pretendono, con brutale ottusità, di definire l’appartenenza ebraica in termini di sangue (art. 8, comma a: «È di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica») con paradossale precisione (comma c: «È considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre»).
Queste leggi, tanto spietate quanto assurde, non furono un meteorite precipitato sul ridente pianeta Italia da una remota e maligna regione siderale. Furono il prodotto di forze congiunte: il regime fascista, la consenziente monarchia (i cui degni eredi, forse perché non hanno più nessun regio decreto da firmare, si son dati allo sport, con risultati davvero eccellenti nel lancio di boutades) e il popolo italiano. Stretto nelle maglie di questa orribile storia, che tuttavia è proprio la sua.
elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
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