venerdì 24 ottobre 2008

CARCERI GIUDIZIARIE DI LUCCA E FIRENZE


di Luigi Morsello


CARCERE GIUDIZIARIO LUCCA


Il direttore del carcere di Lucca era il dr. Vincenzo De Vizia, un anziano funzionario del concorso del dr. Carmelo Aversa, che, lo ricordo, era direttore degli istituti penitenziari di Firenze fin dal 1969 e al quale cedetti la mia “reggenza” in attesa del suo arrivo da Pianosa.
Va detto che l’istituto della reggenza era previsto per chi assumeva temporaneamente la direzione di un carcere, in attesa dell’assegnazione del nuovo direttore e, in genere, in tutti i casi di ‘vacanza’ (non temporanea assenza del titolare) della sede.
Il dr. De Vizia, campano, era un personaggio straordinario, simpatico, compagnone, pittore dilettante (una maldicenza voleva che i quadri fossero dipinti da un detenuto), gaudente (si vantava di essere superdotato), insomma una figura come non ce ne sono più, ma non una macchietta, semmai un retaggio di un antico modo di fare il direttore.
Era incappato diverse volte in guai giudiziari, maldicenze volevano che si approfittasse della sua posizione, addirittura lo sfottevano chiamandolo ‘il Peculatore della Repubblica’.
A distanza di tanti anni credo di poter affermare che non fosse vero, tuttalpiù si comportava con superficialità e faciloneria.
Fatto sta che erano in corso a suo carico tre inchieste giudiziarie, lo dico con beneficio d’inventario, e per una di essere fu rinviato a giudizio, con l’accusa di peculato.
Quando ciò accadeva era in missione a Gorgona.
Fu sospeso in via cautelare dal servizio e a sostituirlo fui mandato, come al solito, io. Era imbarazzante, si trattava di un collega molto ma molto più anziano di me, conviveva con una signora nell’alloggio di servizio destinato al direttore.
Occorrerebbe sapere, non per esperienza diretta per carità, ma almeno riflessa, come per i miei quindici lettori, che cos’è l’ambiente del carcere per capire il mio imbarazzo.
Avevo acquistato a suo tempo una pubblicazione della Giuffrè, una monografia intitolata appunto “L’ambiente del carcere”, che non ho più ed è naturalmente fuori catalogo, ma appresi per esperienza diretta cosa vuol dire.
Già l’essere un direttore trasferito d’ufficio comportava uno scatenarsi della parte peggiore degli esseri umani.
Si potrebbe pensare che io alluda al personale del carcere, ma è vero solo in parte. In realtà il nuovo direttore si affretta a cancellare ogni traccia del predecessore, specie se stimato ed apprezzato dal personale già alle sue dipendenze, oggi si dice dai suoi collaboratori.
A me è accaduto, sia di essere stato vittima di questa tendenza sia autore di simili riprovevoli comportamenti.
Oggi, analizzandoli, posso dire che tali comportamenti sono sempre frutto di incertezze professionali e mi vergogno profondamente di averne sofferto.
Insomma toccava a me, nonostante Lucca distasse da San Gimignano 80 km. e Pisa appena 27 Km.
Nessuno ci voleva andare.
Non mi restava altro che fare buon viso a cattivo gioco.
Però mi preoccupai di salvaguardare l’amor proprio del collega anziano. Infatti la prima cosa che feci appena arrivato a Lucca fu di andare a casa sua a trovarlo per testimoniargli la mia solidarietà. Cercava di tenersi su ma era palesemente abbattuto. Mi fece entrare nel suo studio di pittore e mi fece vedere i suoi quadri (la storia del detenuto che glieli faceva era una maldicenza, era proprio lo studio di un pittore). Mi disse che per qualunque occorrenza potevo chiamarlo.
Insomma, provai un po’ di tristezza.
Poi feci accesso al carcere, che è tuttoggi in via San Giorgio al civico 108, ed all’ufficio del direttore, mi fu mostrata una porta intercomunicante con l’alloggio del direttore (erano contigui, era un vecchio carcere).
Qualche tempo dopo mi fu detto che De Vizia accedeva ancora all’ufficio del direttore, allora lo chiamai al citofono interno e gli dissi che mi avevano appena chiarito la funzione di quella porta e che mi aspettavo che non la usasse ancora.
Credo che non abbia mantenuto la promessa, ma non me ne fregava niente e non volli più sapere nulla al riguardo.
Incontrandolo qualche volta in portineria non ne ho mai fatto cenno. Aveva i suoi guai da sbrigare, la moglie era ricoverata in manicomio, conviveva. Potevo mai dargli addosso ?
La missione durò sette mesi, tanti ce ne vollero per trovare un nuovo direttore titolare, mi ero stancato e poi era rischioso, almeno io pensavo lo fosse, perché il fenomeno terrorismo era in crescendo.
Di per sé, salvo il clima psicologico di quegli anni infestati dal terrorismo, l’incarico non comportò particolari gravami lavorativi, salvo il disordine amministrativo-contabile che mi fu dato di riscontrare in quasi tutti i carceri presso i quali sono stato in missione.
Era più interessante il viaggio, con autovettura di servizio e su strade statali e/o provinciali.
Mi accompagnava in funzione di autista l’app. Sois Vinicio, un sardo che ho già menzionato in altri articoli, un tipo tosto, tranquillo ma pericoloso (quando si arrabbiava, avveniva raramente, era bene stargli lontano !).
Naturalmente, eravamo armati fino ai denti, come si suol dire, pistola d’ordinanza Sois (all’epoca vigeva il Regolamento per il Corpo degli agenti di custodia, un corpo militarizzato), pistola privata per me e il solito M.A.B. (Moschetto Automatico Beretta).
Si passava attraverso le belle, digradanti colline toscane di Certaldo, Castelfiorentino, Ponte a Elsa, Empoli, Fucecchio, Altopascio (famoso anche per il pane), per arrivare a Lucca dopo circa 80 Km., lungo la Provinciale 1, le Statali 429 e 436, la A 11 e, per finire, la Statale 12.
Attraversammo l’autunno, l’inverno per approdare ad un pezzo di primavera.
Un ricordo assume particolare rilevanza.
Sulla strada del ritorno, ma talvolta la mattina anche all’andata, vedevamo in un campo coltivato, nel lato interno più lontano dalla statale, conigli selvatici a ridosso delle loro tane.
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
In questo caso l’app. Sois sbavava nel vedere i conigli fermi sul ciglio interno del campo, impassibili (se si può dire così). Sois era un cacciatore, come molti agenti in servizio a San Gimignano.
Ma guarda quanto sono belli, mormorava fra sé, ma il suo apprezzamento non andava certamente all’aspetto esteriore. Perché non gli tiriamo un colpo, alludendo al M.A.B. che avevamo a bordo. Ma sei matto, gli dicevo, siamo sulla strada, ed egli ribatteva ma è una provinciale, non passa quasi nessuno.
Questa pantomima era quasi all’ordine del giorno, soprattutto quando tornavamo sul tardi del pomeriggio, quasi all’imbrunire ed effettivamente le autovetture che transitavano sulla strada provinciale erano rade, molto rade.
Ma con che cosa gli spariamo, con la pistola ? Sai che bel tiro, sono ad una quarantina di metri, dovremmo essere dei campioni e non lo siamo. Ma lei gli spari col M.A.B.
Un discorso quanto meno surreale, se non fra matti, addirittura.
Ma lei è bravo a sparare col M.A.B. (ci esercitavamo in una cava abbandonata, ma questo è un altro episodio, ne scriverò in un altro articolo), no, io so sparare solo a raffica, e lei provi a colpo singolo.
Uno stillicidio.
Vale la pena di ricordare che in quegli anni ci sentivamo assediati dal terrorismo ed eravamo un bel po’ paranoici, tutti.
Prima di proseguire e raccontare cosa accadde in uno dei viaggi di ritorno, per dimostrare quanto la paranoia di fosse impossessata di noi (era difficile restare equilibrati quando arrivavano notizie di ammazzamenti indiscriminati di magistrati, giornalisti, forse di polizia - ivi compreso agenti di custodia. Direttori di carcere no, ma pensavamo ‘non ancora’; comportamenti oggi giudicabili come errati e da evitare, pur non recando danno ad alcuno, erano all’ordine del giorno), voglio raccontare cosa accadde durante uno dei viaggi di andata a Livorno per raggiungere Gorgona.
Io raccomandavo di tenere sempre gli occhi aperti, di non distrarsi mai, di notare e riferire ogni anomalia. Talvolta erano parole al vento, perché invece ci si distraeva eccome.
Bene, un viaggio di andata cambiai autista, per ragioni contingenti e temporanee.
Ed accadde il ‘fenomeno’. Sulla Firenze – mare fummo superati (avevamo una Fiat 1100 D) da una Mercedes a bordo della quale notai una donna, giovane, che ci scattava fotografie. Logica avrebbe voluto che quegli scatti fossero del tutto innocenti, ma la logica era andata a pallino. Allora dissi all’autista di accelerare in modo da leggere il numero di targa e il modello della Mercedes, ma l’autista sembrava paralizzato, non accelerava, allora gli ordinai di accelerare minacciandolo di ritorsioni disciplinari ed egli lo fece. Non avremmo raggiunto la Mercedes se non avesse rallentato di suo, annotai il numero di targa e proseguimmo per Livorno, la Mercedes naturalmente ci lasciò indietro e sparì alla vista.
Arrivati a Livorno chiesi, con calma, all’autista perché non aveva accelerato subito, aveva avuto paura, ma guarda che se avessero voluto spararci lo avrebbero fatto prima di superarci (armi non ne avevo visto, solo la macchina fotografica in mano alla giovane donna).
Quando tornammo in continente il venerdì successivo a Livorno c’era un altro autista, quel ragazzo poi mi disse con estrema franchezza che non se la sentiva di rischiare la pelle guidando la macchina di servizio.
Come dargli torto !
Segnalai la targa e le caratteristiche della Mercedes all’antiterrorismo a Firenze e dopo qualche tempo arrivò la risposta: erano turisti tedeschi !
Ma torniamo ai conigli. Mi feci convincere. Accostammo un tardo pomeriggio sul ciglio della strada, scendemmo cautamente dalla macchina, quatti quatti ci avvicinammo, presi la mira con il M.A.B., tirai il grilletto e … si staccò il caricatore, cadendo per terra, non lo avevo completamente innestato !
Restammo a bocca aperta, questo episodio ci riscosse, ci guardammo intorno e vedemmo due file di macchine ferme sul nostro lato e su quello opposto!
Andiamo via subito, dissi a Sois, ci infilammo in macchina e partimmo a razzo !
Qualche giorno dopo mi venne a trovare il comandante la stazione carabinieri di San Gimignano il quale mi chiese, con tono pacato ed un sorrisetto sardonico, se eravamo noi qualche giorno prima lì, sulla provinciale di ritorno.
Ma almeno innestate correttamente il caricatore ! mi disse.
Era davvero un grande carabiniere, ne conservo un ricordo molto nostalgico.
Non ci provammo più, avevamo fatto una grande ca..ata e c’era andata bene, meglio non tentare oltre la sorte, ci limitavamo a guardare quei conigli che a un tratto sparirono, probabilmente non erano stati altrettanto fortunati con dei veri cacciatori, oppure una morìa da mixomatosi.



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LA MISSIONE PRESSO GLI ISTITUTI PENITENZIARI DI FIRENZE

Dopo avervi prestato servizio dal 1967 al 1969 in qualità di vice direttore, mai avrei pensato che vi avrei fatto ritorno, sia pure come “reggente” la direzione, circostanza propiziata dal fatto che il direttore dr. Carmelo Aversa, che era stato anche reggente dell’Ispettorato Distrettuale di Firenze, era uscito di scena in malattia, anche in conseguenza di contrasti con l’ispettore distrettuale che vi fu assegnato.
Quando questi morì improvvisamente in Pianosa per una malattia che, si disse, era una arteriosclerosi giovanile grave, il dr. Aversa rientrò in servizio, ma non fu più assegnato alla reggenza dell’Ispettorato, cui fu invece destinato il dr. Guglielmo Nespoli.
Fu quest’ultimo che mi destinò in missione a Firenze nell’acme della virulenza del fenomeno terroristico in Italia, correva l’anno 1979.
L’antefatto.

Fausto Dionisi (Acquapendente, 6 ottobre 1954 – Firenze, 20 gennaio 1978) è stato un poliziotto italiano, agente della Polizia di Stato, ucciso durante un assalto di un commando di Prima Linea che tentava di liberare alcuni compagni dal carcere di Murate. Dall’intervento di una pattuglia della Polizia di Stato scaturì un conflitto a fuoco che scongiurò l’evasione, ma l’agente Dionisi cadde ucciso, mentre l'agente Dario Atzeni, colpito da quattro proiettili all’altezza dell’inguine, venne salvato dopo un difficile intervento chirurgico. Il terzo membro della pattuglia, illeso, rispose al fuoco dei terroristi, che riuscirono a darsi alla fuga coprendosi con il lancio di una bomba a mano.
Dionisi lasciò la moglie, Mariella Magi, di 23 anni, e la figlia Jessica di due anni e mezzo.
Fu insignito della Medaglia d'oro al valore civile.
I terroristi che parteciparono al suo omicidio vennero individuati e furono condannati a 30 anni di reclusione (poi ridotti a 25 in appello), ma ne scontarono in carcere solo 12.
Nel 2000 fu avviata la pratica di riabilitazione per alcuni di essi presso il tribunale di Roma. Nonostante il parere contrario della famiglia della vittima, il tribunale cancellò le pene accessorie agli assassini, consentendo, tra l'altro, l'eleggibilità a cariche pubbliche. Uno dei condannati per l'omicidio, ma solo con l'imputazione di concorso morale (prevista dalla legislazione del tempo) in quanto non prese parte all'operazione, Sergio D'Elia, è stato eletto nel 2006 deputato nelle liste della Rosa nel Pugno ed è stato tra i segretari alla Presidenza della Camera.
Sergio D'Elia (Pontecorvo, 5 maggio 1952) è un politico italiano della Rosa nel pugno ed ex terrorista di Prima Linea.
Cresciuto in provincia di Lecce, luogo di origine dei suoi genitori, si trasferisce a Firenze per frequentare la facoltà di Scienze Politiche.
Qui viene a contatto con gli ambienti anarchici ed entra in alcune formazioni extraparlamentari: prima in Potere Operaio, quindi in Senza tregua, infine in Prima Linea, l'organizzazione terroristica di estrema sinistra di cui diventa dirigente.
Il 20 gennaio del 1978 alcuni appartenenti alla sua formazione, durante un tentativo di evasione dal carcere delle Murate di Firenze, uccidono l'agente Fausto Dionisi. In seguito a ciò viene arrestato e condannato in primo grado a 30 anni, per banda armata e concorso in omicidio.
La condanna gli viene inflitta pur non avendo egli partecipato in prima persona al tentativo di evasione e alla sua pianificazione, ma in quanto ritenuto a conoscenza del piano, secondo i dettami delle legislazione anti-terroristica d'emergenza.
In appello si vede ridotta la pena a 25 anni, di cui sconta effettivamente solo 12, grazie alle riduzioni di pena per l’applicazione della legge sulla dissociazione dal terrorismo e di altri benefici di legge.
Il processo relativo fu celebrato in primo grado alla fine dell’anno 1978, i terroristi individuati ed arrestati erano anch’essi detenuti presso la casa circondariale Le Murate di Firenze.
In questo brodo di coltura la direzione del carcere risultò priva di titolare, gli sforzi per trovarlo non approdavano ad un successo immediato.
Il dr. Nespoli, come farà in seguito anche con Pianosa, chiamò l’appello ed io fui inviato a Firenze, non senza una qualche emozione.
Naturalmente, trovai una gestione disinvolta dei lavori di rafforzamento della sicurezza, di cui ero stato messo a conoscenza dal rag. Luigi Parisi, che vi prestava servizio e che trascendeva le possibilità di controllo dell’area della ragioneria.
Bloccai alcuni lavori del tutto inutili, accorse il direttore dell’Ufficio 8° Pasquale Buondonno ma non cavò un ragno dal buco.
Intanto, ebbe inizio il processo a Prima Linea e nella prima udienza un esponente della formazione terroristica tentò di leggere in aula un proclama, prontamente impedito dal presidente della corte, che si infuriò moltissimo, minacciando ritorsioni nei confronti dell’autorità dirigente, almeno così mi fu riferito dal maresciallo comandante (non ne ricordo il nome, ma solo che era un sardo, temerario e totalmente privo di paura), al quale detti disposizioni di far perquisire minuziosamente i detenuti che andavano in udienza, sequestrando loro carte e documenti non di contenuto processuale (proclami, per intenderci), che puntualmente spuntarono fuori, furono sequestrati e consegnati ‘ad horas’ al presidente della Corte.
Naturalmente, partirono minacce delle quali non mi diedi pensiero e come me il comandante. L’ho detto, eravamo un po’ paranoici, in questo caso per sottovalutazione del pericolo.
Infatti, non passarono giorni che la solita telefonata disse di andare a cercare in quella cabina telefonica un comunicato delle BR, fui immediatamente convocato dal dr. Nespoli, che era a casa ammalato, mi vece vedere il comunicato, con la stella a cinque punte, l’odiato simbolo del terrorismo, e me ne diede copia. L’ho conservato per molti anni, poi, in un momento di repulisti l’ho distrutto. Diceva semplicemente che l’organizzazione avrebbe reagito contro il nuovo direttore (io) ed i soprusi che commetteva a danno dei compagni ‘prigionieri’. Era molto breve, tanto che in Questura si dubitava della sua autenticità. Oggi io penso che fu solo fatto in fretta e furia.
Il dr. Nespoli era molto preoccupato, che Prima Linea rivolgesse la sua attenzione ai capi regionali dell’amministrazione penitenziaria (lui compreso). Gli chiesi cosa voleva che facessi, chiedere la revoca della missione rispose.
Lo feci e la missione finì.

Luigi Morsello

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Le immagini sono dell'ex-casa circondariale di Firenze di via Ghibellina, restaurata da Renzo Piano.
Mi ha fatto un certo effetto vedere come sono ora e ricordando quanto fossero crude allora.
Le cartine topograficbe sono relative all'ubicazione della casa circondariale di Lucca e l'itinerario percorso in auto ogni volta.