sabato 18 ottobre 2008

Carceri Giudiziarie di Siena e Montepulciano

di Luigi Morsello

CARCERE GIUDIZIARIO SIENA

Ho già scritto in un precedente articolo quali sono state le mie sedi di servizio, in cui ho svolto funzioni di direttore titolare, e quelle in cui sono stato contemporaneamente inviato in missione (La figura del direttore del carcere-IL PARLAMENTARE–sito web: http://www.ilparlamentare.it/ ).
Riassumo in breve: direttore titolare di sette carceri, CONTEMPORANEAMENTE in missione in altri ventidue istituti, servizio presso l’Ispettorato Distrettuale di Firenze e presso il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Milano.
Un ragguardevole stato di servizio.
Il mio primo incarico di missione fu presso il Carcere Giudiziario di Siena, ero direttore titolare presso la Casa di Reclusione di San Gimignano, laddove avevo sostituito il direttore dr. Alfredo Gambardella trasferito presso il carcere giudiziario di Livorno a causa di due evasioni di due e quattro detenuti.
Gambardella non aveva nessuna colpa. La casa penale di S. Gimignano, situato in un vecchio convento, era un colabrodo.
Direttore titolare del carcere di Siena era il dr. Giuseppe Lattanzio, già direttore degli istituti penitenziari fiorentini, si era fatto trasferire perché molto ammalato ed il carcere di Siena era piccolo e tranquillo. Di lì a due anni Lattanzio morì e venne inviato in missione a Siena Gambardella da Livorno. Il povero Gambardella ogni volta doveva percorrere complessivamente 248 chilometri, mentre San Gimignano era distante appena 78 chilometri complessivi.
Gambardella era uno che non diceva mai no, era stato funzionario di ragioneria, poi direttore, era carico di anni, di esperienza e sostanzialmente un disilluso, seppure si fosse mai fatto delle illusioni. Era anche un fatalista. Ma a un certo punto si stancò, io credo si fosse stufato, chiese ed ottenne di essere rimpiazzato.
Il direttore più vicino ero io e toccò a me, per la prima volta.
A Siena andavo con la mia automobile privata, debitamente autorizzato e con rimborso chilometrico del costo della benzina.
Era vero, il carcere era ed è (uno dei pochi vecchi istituti penitenziari sopravvissuti) un piccolo carcere, in passato ve n’era uno per ogni sede di Tribunale, ma tantissimi sono stati sostituiti con nuove carceri.
Si trova in piazza Santo Spirito, al civico 11, attaccato al carcere (un ex-convento) una chiesa, il cui titolare era anche cappellano del carcere.
La chiesa di Santo Spirito fu costruita nel 1498 su un precedente edificio sacro e si presenta come una fabbrica dalle linee semplici, a capanna, adornata da un portale in pietra attribuito a Baldassarre Peruzzi, pagato dal vescovo di Pienza Girolamo Piccolomini e databile al 1519. L'impianto della chiesa è opera di Francesco di Giorgio Martini.
La chiesa è completata da una cupola eretta fra il 1504 e 1508, forse su disegno di Giacomo Cozzarelli, e fu costruita a tutte spese del signore di Siena Pandolfo Petrucci.
L'interno fu restaurato nel 1921. Entrando, a sinistra, si apre la cappella degli Spagnoli con tre affreschi del Sodoma: San Sebastiano, Sant'Antonio abate e San Giacomo di Compostella vincitore dei mori.
La pala, pure del Sodoma, rappresenta San Nicola da Tolentino e San Michele arcangelo.
Dietro l'inferriata, il presepio in terracotta colorata, opera alla quale lavorò in parte anche Ambrogio della Robbia e risalente al 1504.
Nella seconda cappella la statua lignea di Giacomo Cozzarelli rappresenta San Vincenzo Ferreri.
La terza cappella presenta l'Incoronazione di Maria del Beccafumi mentre nella quarta è visibile il San Giacinto di Francesco Vanni (sull'altare) e, alle pareti, le Storie di San Giacinto di Ventura Salimbeni.
I pilastri ai lati dell'altar maggiore presentano le immagini di quattro santi, opera del 1608 di Rutilio Manetti, mentre il catino dell'abside presenta l'affresco della Pentecoste di Giuseppe Nasini.
Nella terza cappella del lato sinistro sull'altare l'Incoronazione di Maria opera di Girolamo del Pacchia.
Le due statue di legno (la Madonna e il San Girolamo), a lungo attribuite a Ambrogio della Robbia, sono invece più probabilmente opera del Cozzarelli.
Il Crocifisso di legno è di Sano di Pietro mentre la tavola della Madonna col Bambino è di Andrea Vanni.
La statua lignea di Santa Caterina nella seconda cappella è del Cozzarelli; L'Assunta con San Francesco e Santa Caterina della prima cappella è attribuita a Matteo Balducci e datata al 1509.
I locali dell'attuale casa circondariale occupano il sito dell'antico convento di Santo Spirito. Il nome, verosimilmente, viene all'edificio dai suoi primi (almeno a quanto se ne sa) ospiti, i monaci Silvestrini di Santo Spirito che occuparono il convento fino al 1430 quando, per alcuni anni, fino al 1437, fu affidato ai monaci vallombrosani dell'Abbazia Nuova.
In quest'anno si insediarono in Santo Spirito i Frati Neri che vi rimasero fino al 1448 quando subentrarono nell'edificio i Domenicani della congregazione di Bologna.
Nel 1446 furono eseguite alcune importanti opere di consolidamento e ristrutturazione dell'edificio. Nel 1497 i frati se ne andarono per decisione papale e inutilmente il comune di Siena si adoperò perché fosse loro permesso di restare in città.
Il convento fu così ceduto ad un'altra congregazione domenicana, quella riformata dei seguaci di Gerolamo Savonarola.
E' sotto di loro che la chiesa fu ristrutturata nelle forme che attualmente presenta. Tuttavia, l'aver voluto sostituire i frati senesi con frati fiorentini provocò il sospetto del governo senese il quale nel 1504 deliberò il loro allontanamento. Alcuni anni dopo, nel 1509, il convento venne occupato da una diversa congregazione di domenicani meno collegati a Firenze.
Parzialmente requisito per acquartieramento militare durante la guerra del 1554-1555 il convento rimase, comune, ai domenicani i quali vi restarono fino alla soppressione leopoldina degli ordini religiosi del 1782.
Nel convento prese sede, così, una Accademia Ecclesiastica che sopravvisse fino al 1793, quando anch'essa fu soppressa e i locali del convento furono concessi in uso al seminario arcivescovile con sede in san Giorgio.
Gli ordini religiosi furono ripristinati nel 1815, con la Restaurazione, e dal 1817 nel convento di Santo Spirito furono ospitati i Carmelitani fino al 1821. In quest'anno i locali tornarono di nuovo in uso al seminario fino al 1843 quando vi tornarono di nuovo i domenicani.
Nel 1883 il fabbricato fu requisito dal governo, ristrutturato, ampliato e adibito a carcere giudiziario in luogo delle vecchie prigioni ubicate sotto il Palazzo Comunale. (Passeggiando per il rione … Santo Spirito).
(Nell’immagine la Chiesa di Santo Spirito, l’ingresso del carcere è sulla destra di chi guarda).
Presto anche a Siena finì la tranquillità, si era già entrati negli “anni di piombo”, avevano avuto già inizio le proteste dei detenuti di tutta Italia per ottenere l’approvazione della legge penitenziaria (legge 26 luglio 1975 n. 354), dalla quale ci si aspettava moltissimo, in particolare i permessi premiali, che però non vennero concessi solo per “imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente” (art. 30, comma 1) ed “eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità” (art. 30, comma 2). Solo molti anni più tardi il legislatore, che nell’approvare la nuova legge penitenziaria non ebbe “l’ardire”di prevedere anche i “premessi premio”, introdusse questo strumento legislativo con la c.d. “legge Gozzini” (legge 10 ottobre 1986 n. 663), che si rivelò determinante per spegnere il fuoco delle rivolte, che erano rimaste endemiche nelle carceri italiane.
Ciò accadeva nonostante alcuni magistrati di sorveglianza, figura istituzionale con compititi amministrativi e giurisdizionali introdotta con la nuova legge penitenziaria, “illuminati” adottassero forzature terribili della nuova legge per alleggerire la pressione e le spinte all’interno del carcere, che sfociavano in rivolte in modo aperto e violento.
A Siena, competente anche per San Gimignano, c’era il giudice Antonello Baldi, un magistrato illuminato e temerario, che anni dopo incappò in un infortunio professionale per un permesso concesso a un detenuto del carcere di San Gimignano e fu trasferito a Livorno al Tribunale fallimentare.
Ma prima del 1975 il magistrato di sorveglianza era una funzione minore, affidata al Giudice Istruttore, mentre la sorveglianza sulle carceri era affidata al Procuratore della Repubblica.
Quel periodo fu funestato da una evasione (ma io ero in ferie) di un detenuto sardo, che prese in ostaggio un agente e facendosene scudo guadagnò senza difficoltà l’uscita dal carcere dal portone principale. Il personale non ne subì alcuna conseguenza, penale e disciplinare.
L’altro episodio significativo si verificò successivamente e fu, con ogni probabilità, uno stratagemma, finito a male, per evadere nuovamente. La vicenda non è stata mai chiarita completamente. Fatto sta che un’intera sezione fu teatro di una rivolta, che partì da alcuni detenuti che non erano riusciti a prendere in ostaggio l’agente di sezione (fu rapido ad uscire dalla sezione) e girarono la frittata a rivolta.
In questi casi i detenuti dilagavano, quella volta, la prima per me, allagarono la sezione, frantumarono tutti i corpi illuminanti, barricarono l’ingresso della sezione e chiesero di parlare col P.M.: quest’ultima richiesta non si dimostrò molto illuminata.
L’ispettore distrettuale in missione si chiamava Giuseppe Cangemi (anni dopo me lo sono ritrovato Provveditore regionale a Milano, dopo essere stato direttore del carcere di S. Vittore per lunghi anni, e vicario del precedente Provveditore. A S. Vittore fu sostituito dal dr. Luigi Pagano, proveniente dal carcere di Brescia ed oggi Provveditore Regionale in carica a Milano).
A dire il vero, Cangemi era non era nemmeno Primo Dirigente, dirigeva “Le Nuove”, le carceri giudiziarie di Torino (oggi ci sono anche “Le Vallette”) e venne a sostituire l’Ispettore distrettuale “pro-tempore”, anch’egli un reggente, di cui non ricordo il nome, forse il dr. Carmelo Aversa.
Cangemi sopraggiunse quando la rivolta era iniziata da molte ore, era calata la notte, il P.M. era stanco di “trattare” coi rivoltosi, era sul punto di autorizzare (come poi fece) la repressione della rivolta, con personale della Pubblica Sicurezza (non ancora Polizia di Stato), dei carabinieri e degli agenti di custodia. Io poi, accorrendo da San Gimignano, avevo portato con me alcune unità degli agenti di custodia esperte, sia nel trattare che nell’intervenire con l’uso della forza.
Il sopraggiungere di Cangemi bloccò momentaneamente l’intervento, al quale egli era contrario. Va detto che il dr. Cangemi aveva fatto per sei anni il cancelliere, per poi transitare nei ruoli direttivi dell’amministrazione penitenziaria, mediante concorso aperto a tutti, quindi dalla qualifica iniziale. Ovviamente, era molto più anziano di me, almeno sei anni di differenza. Ma doveva percorrere ancora tutta la carriera (ci riuscirà a Milano), temeva il rischio di un passo falso, come anche l’eventuale nomea di “repressore” (erano gli “anni di piombo”), per cui si dichiarò assolutamente contrario all’intervento e fautore di una trattativa ad oltranza. Va ricordato che a maggio 1974 c’era stata ad Alessandria, nella Casa di Reclusione, una rivolta soffocata nel sangue dall’intervento dei carabinieri guidati dal gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, con un bilancio di sei morti (2 detenuti, due agenti, il medico e l’assistente sociale) e 14 feriti.
Aveva buon motivo di essere prudente, ma non bastò.
L’ordine di intervenire venne dato, entrarono poliziotti, carabinieri, guidati da un commissario e da un ufficiale dei carabinieri, gli agenti di custodia e in pochi minuti la rivolta era stata sedata.
Ovviamente, vi furono delle resistenze, attive e passive dei detenuti, furono distribuite non pochi colpi di sfollagente, vi furono contusi e feriti, il tutto sotto la supervisione del P.M. di turno, un magistrato con non poca anzianità di servizio: tutto regolare, non vi erano stati eccessi.
Anche Cangemi, che volle entrare assieme agli agenti di custodia, volle entrare in sezione, ma era buio e uno-due colpi di sfollagente “attinsero” anche lui.
Qualche giorno dopo seppi che non erano stati casuali.
Cangemi non riferì alcunché, non voleva compromettersi la carriera. Anni dopo, incontratolo in Lombardia (era direttore di S. Vittore, io del carcere “Bellaria” di Lonate Pozzolo, oggi soppresso), negò l’accaduto.
Concludo con un episodio curioso.
Nel cortile del convento-carcere erano coltivati fiori, fra i quali anche rose.
Quando il cappellano andò in pensione, il suo sostituto, un brillante giovane sacerdote che mi aveva molto in simpatia, fin quando durarono (la mia missione e le rose) mi faceva trovare sulla scrivania dell’ufficio del direttore una rosa in un bicchiere di cristallo alto.
Non ho mai capito perchè.


CARCERE GIUDIZIARIO MONTEPULCIANO

È senza subbio alcuno la missione più confortevole che mi sia stata mai affidata.
Montepulciano dista 105 chilometri da San Gimignano, quindi ogni volta erano 210 chilometri di strada con l’autovettura privata, ovviamente.
Nella missione a Montepulciano mi accompagnava il rag. Luigi Fiorella, in servizio a San Gimignano, che mi accompagnava anche a Siena.
L’istituto penitenziario, ora soppresso, serviva al Tribunale di quella città. (Nell’immagine, l’istituto, non visibile è sulla sinistra di chiguarda del palazzo Nobili-Tarugi).
Era piccolissimo, se non ricordo male, una trentina di posti letto.
Francamente del carcere come si intende oggi e come si intendeva anche ieri l’altro, non aveva proprio nulla.
Erano stati iniziati dei lavori di restauro, che ovviamente portai a termine. Le dimensioni non giustificavano la presenza non solo di un direttore titolare ma nemmeno di un ragioniere, di qui il nostro invio in missione.
La sede di Montepulciano era equidistante da Firenze e Volterra (115 km.), la sede più vicina, Siena (63 km.) era senza direttore e ci andavo già io.
Eravamo la soluzione più economica. E poi Montepulciano ci piaceva, bellissima ma diversa da San Gimignano.
Vi si produce il ‘vino nobile di Montepulciano’ e il ‘Brunello di Montalcino’. La cucina era ottima, sopratutto una pasta fatta ‘in loco’ artigianalmente, i "pici", per non parlare degli arrosti alla brace per i quali l’intera Toscana è famosa.
Inoltre, il cuoco detenuto era bravo a cucinare.
Per finire, l’acqua aveva un effetto tonico straordinario, era molto rilassante farsi una doccia, cosa che io facevo regolarmente ogni volta in caserma agenti.
Il lavoro si sbrigava in mezz’ora, ci andavamo due volte la settimana, aveva molto più da fare il rag. Fiorella, un pugliese di buon carattere, intelligente e capace, da poco in pensione, perché provvedeva lui alle registrazioni contabili.
Il carcere non era dotato di autonomia contabile, era contabilmente collegato con Firenze ma ottenni che venisse collegato a San Gimignano.
La missione durò molti anni, non ricordo più quando ebbe termine.
Il maresciallo comandante si chiamava Musso, siciliano, comandava un minidistaccamento di agenti di custodia, in un minicarcere che non destavano preoccupazione alcuna e, invece, era sempre preoccupato, sempre in ansia, fino ad avere tachicardie parossistiche inspiegabili se non con un carattere estremamente fragile.
Ogni volta, espletate le formalità burocratiche, sentito qualche detenuto, dopo aver fatto doccia ed avere pranzato, me ne andavo in caserma agenti per schiacciare un pisolino. Era fondamentale per recuperare energie che profondevo a piene mani a San Gimignano e, anche, un pochino a Siena.
Se poi aggiungiamo che a questi tre incarichi (San Gimignano, Siena, Montepulciano) ne veniva aggiunto un quarto, “In giro per la Toscana” (titolo di un mensile illustrato che credo non esista più), allora si comprende la necessità di pause.
Intanto nel paese Italia e, di riflesso, anche a San Gimignano, accadevano ‘cose turche’.
Ne racconterò in seguito.

(continua)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

> Concludo con un episodio curioso.
>Nel cortile del convento-carcere erano coltivati >fiori, fra i quali anche rose.
>Quando il cappellano andò in pensione, il suo >sostituto, un brillante giovane sacerdote che mi >aveva molto in simpatia, fin quando durarono (la >mia missione e le rose) mi faceva trovare sulla >scrivania dell’ufficio del direttore una rosa in un >bicchiere di cristallo alto.
>Non ho mai capito perchè.

Probabilmente pensava al celebre episodio di Pietro Maroncelli allo Spielberg.
Saluti
VC

In quel deplorabile stato, ei poetava ancora, ei cantava, ei discorreva; ei tutto facea per illudermi, per nascondermi una parte de' suoi mali. Non potea più digerire, né dormire; dimagrava spaventosamente; andava frequentemente in deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti raccoglieva la sua vitalità e faceva animo a me.
Ciò ch'egli patì per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne il protomedico, approvò tutto quello che il medico avea tentato, e senza pronunciare la sue opinione sull'infermità, e su ciò che restasse a fare, se n'andò.
Un momento appresso, viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: “Il protomedico non s'è avventurato di spiegarsi qui in sua presenza; temeva ch'ella non avesse la forza d'udirsi annunziare una dura necessità. Io l'ho assicurato che a lei non manca il coraggio”.
“Spero” disse Maroncelli “d'averne dato qualche prova, in soffrire senza urli questi strazi. Mi si proporrebbe mai?..”
“Si, signore, l'amputazione. Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, èsita a consigliarla. In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l'amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo?...”
“Di morire? E non morrei in breve egualmente se non si mette termine a questo male?”
“Dunque faremo subito relazione a Vienna d'ogni cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla...”
“Che? ci vuole un permesso?”
“Sì, signore.”
Di lì a otto giorni, l'aspettato consentimento giunse.
Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch'io lo seguissi.
“Potrei spirare sotto l'operazione;” diss'egli “ch'io mi trovi almeno fra le braccia dell'amico.”
La mia compagnia gli fu conceduta.
L'abate Wrba, nostro confessore (succeduto a Paulowich), venne ad amministrare i sacramenti all'infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, e non comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.
I chirurgi vennero alfine: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli, quando occorrevano operazioni, aveva il diritto di farle di sua mano e non volea cederne l'onore ad altri. L'altro era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal governatore per assistere all'operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli stesso, ma gli convenne contentarsi di vegliare all'esecuzione.
Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò tutto intorno, la profondità d'un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo, si segò l'osso.
Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un'occhiata di compassione, poi, voltosi al chirurgo operatore, gli disse: “Ella m'ha liberato d'un nemico, e non ho modo di rimunerarnela.”
V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa.
“Ti prego di portarmi quella rosa” mi disse.
Gliela portai. Ed ei l'offerse al vecchio chirurgo, dicendogli:
“Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine.”
Quegli prese la rosa, e pianse.
(Silvio Pellico - Le mie prigioni Capo LXXXVII)

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Ciao Don Fabio, come stai ?