lunedì 20 ottobre 2008

Figaro qua, figaro là - il factotum di Arcore


LA REPUBBLICA
19 OTTOBRE 2008

GUARDANDO le nostre televisioni e sfogliando le pagine dei nostri giornali (con qualche sempre più rara eccezione) in mezzo ai tanti guai che affliggono l'economia mondiale emerge un aspetto consolante: il patrio governo e il suo leader hanno guadagnato molti punti in tema di prestigio internazionale. Tutti ci cercano, vogliono i nostri consigli, valutano con apprezzamento i nostri programmi, chiedono la nostra mediazione. Tra i grandi della Terra il nostro peso è crescente.

Siamo di pieno diritto nel G20, nel G15, nel G10, nel G9, nel G8, nel G7, nel G4, cioè nei consessi dove vengono forgiati i destini del pianeta, da quelli più estesi a quelli più ristretti. Infine questo periodo di passione si è concluso non a caso con l'incontro intimo e esclusivo tra il presidente degli Stati Uniti d'America (lo sarà ancora per quindici giorni) e il capo del governo italiano. Che cosa si vuole di più?

Questa crescita di autorevolezza trae conferma dalle dichiarazioni degli interessati e in particolare da quelle del presidente del Consiglio e del ministro dell'Economia che i nostri "media" riportano con la massima evidenza e il dovuto compiacimento. Siamo noi ad aver lanciato l'idea d'un fondo a tutela dei depositanti, noi ad aver suggerito la creazione d'un altro fondo sovrano europeo che sostenga gli investimenti, noi ad immaginare un intervento unitario dell'Ue per impedire il fallimento delle banche, noi a progettare una nuova Bretton Woods con l'obiettivo di riscrivere le regole del capitalismo mondiale. E del resto non era stato Berlusconi, già quattordici anni fa, a lanciare l'idea d'un nuovo piano Marshall per la Palestina, quale supremo strumento per metter fine all'interminabile conflitto in Medio Oriente?

In questa immaginaria rassegna dei primati italiani conta poco che gran parte dei progetti siano soltanto scatole vuote, annunci generici, espedienti mediatici ai quali non è mai seguito un qualsiasi avvio di attuazione e contano ancor meno i contributi concreti della Merkel, di Gordon Brown, di Sarkozy, di Bernanke, di Paulson, giuste o sbagliate che furono le loro iniziative.

Per il pubblico italiano, istruito dai media nostrani e dalle dichiarazioni a getto continuo dei nostri governanti, il motore della lotta contro la tempesta economica che si è abbattuta sul pianeta sta a palazzo Chigi e nei suoi immediati dintorni.

Perfino il voto contro la politica "climatica" dell'Europa, che ha comportato due mesi di stallo, è stato presentato come il segno della nostra forza internazionale e della nostra lungimiranza.
E' necessario segnalare che queste esaltazioni mediatiche sono prive di ogni rapporto con la realtà e con la verità dei fatti che si sono svolti in tutt'altro modo, con tutt'altre sequenze e con tutt'altri protagonisti?

* * *

Un altro assai diffuso esercizio mediatico in corso è quello della scoperta dell'acqua calda presentata come la prova della intelligenza e della vigilanza dei governi e delle istituzioni internazionali. Quell'esercizio non è limitato all'Italia ma si estende a tutto l'Occidente.
Si è scoperto pochi giorni fa che la crisi finanziaria sta incidendo sull'economia reale. Il Fondo monetario, il Tesoro americano, la Fed, la Bce, la Commissione di Bruxelles e - per quanto ci riguarda - Berlusconi e Tremonti lanciano l'allarme perché "si è aperta la seconda fase", quella cioè della recessione.

E ve ne accorgete adesso? Non era chiaro fin dall'inizio? Quando le crisi finanziarie superano una certa soglia e una certa dimensione, i loro effetti tracimano inevitabilmente al di là dell'aspetto congiunturale e avviano processi più o meno lunghi di ristagno e recessione.

Invece no, non se n'erano accorti, anzi davano dello stolto o del catastrofista a chi fin dall'inizio raccomandava di attuare provvedimenti capaci di arginare o rallentare le conseguenze negative sull'economia reale.

Da questo punto di vista la palma del primato spetta alla Banca centrale europea e alla Commissione di Bruxelles. La prima per aver mantenuto testardamente il tasso di interesse al 4.25 senza poter esercitare nessun freno sull'inflazione ma provocando invece deleteri effetti sul costo dei mutui immobiliari e dei prestiti alle imprese.

La seconda difendendo rigidamente la soglia di stabilità del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil e martellando i governi affinché perseguissero politiche di tagli di spesa e pareggio dei bilanci.

Trichet, i membri del direttorio della Bce, Barroso e Almunia, portano sulle spalle un'assai pesante responsabilità. Se è giusto dare la caccia ai manager inefficienti di banche e di imprese, lo staff della Bce e quello della Commissione di Bruxelles dovrebbero capeggiare quella lista e trarne le conseguenze dovute.

* * *

In questo panorama Giulio Tremonti rappresenta un caso anomalo e per certi aspetti patetico. Fu tra i primi a dare l'allarme nel giugno scorso sulle dimensioni della crisi finanziaria e bancaria in arrivo. Indicò gli scenari e le opzioni che si aprivano e, sia pure in termini generici, le politiche che si sarebbero dovute adottare. Ma poi, una volta messo alla guida dell'Economia, fece esattamente il contrario di quanto aveva indicato.

Fece approvare in nove minuti e mezzo (ricordate?) una legge finanziaria triennale che non merita altra definizione se non quella di configurare una politica economica deflazionistica. Una legge come quella, che punta ad abbassare la spesa per molte decine di miliardi con tagli "orizzontali", adottata da chi vede arrivare - e lo predice - una tempesta finanziaria con evidenti conseguenze recessive, è un comportamento inspiegabile.

Altrettanto inspiegabile la vicenda della "Robin-tax" che campeggiò nelle prime pagine dei giornali per almeno un mese e su cui Tremonti costruì una parte del suo fascino mediatico. Fu il fiore all'occhiello del nuovo ministro dell'Economia tassare i ricchi per dare ai poveri, tassare le banche per finanziare la "social card" da distribuire ad un milione di italiani con redditi inferiori agli 8 mila euro annui. Totale preventivato 400 milioni.

Sono passati quasi cinque mesi da quel piccolo colpo di teatro mediatico: la "social card" sarà distribuita a dicembre ma nel frattempo le banche hanno cessato d'esser ricche, il governo anziché tassarle deve sostenerle e per farlo ha varato un decreto dove prevede: "cifre illimitate" pur di evitare fallimenti.
Robin Hood se n'è andato dalla foresta di Sherwood, lo sceriffo di Nottingham gira col saio e il bastone del pellegrino e noi contribuenti attendiamo di sapere quanto costa il suo sostentamento.
Non è patetico?

* * *

Comunque il panico delle Borse sembra sia stato frenato dai provvedimenti messi in atto in Europa e in Usa sulla scia del piano indicato da Gordon Brown e dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Quando una banca è in difficoltà lo Stato interviene attraverso una sua agenzia-veicolo (l'Iri del 1933?) che entra nel capitale e nella compagine azionaria della banca. Di fatto si tratta di nazionalizzare quelle banche che non ce la fanno a camminare con le proprie gambe e con i soldi dei propri azionisti.

Questi provvedimenti, adottati con piccole varianti in tutta Europa, hanno avuto un buon effetto; depositanti e risparmiatori sembrano più tranquilli, le Borse stanno recuperando anche se una certa inquietudine permane. C'è anche qualche effetto collaterale sgradito: la speculazione si concentra contro banche "chiacchierate", ne deprime i corsi, provoca l'intervento di salvataggio pubblico e incassa la plusvalenza realizzata quando i corsi riprendono a salire.

L'aspetto positivo di questa manovra, oltre a quello di frenare il panico, consiste in una scarsa esposizione della finanza pubblica che si effettua nella forma di garanzia. L'Italia per esempio non ha neppure previsto una copertura a questo provvedimento: se la credibilità del governo rassicura i risparmiatori e i depositanti, il Tesoro non tirerà fuori neppure un soldo.
Quindi tutto bene, così sembra. Ma la musica cambia quando si passa alla fase due, cioè all'economia reale e alla recessione.

* * *

Se un settore produttivo è in difficoltà, se l'Ue autorizza forme di sostegno alle aziende e se i governi decidono di intervenire, in quel caso non si tratta di garanzie senza esborsi: si tratta di soldi veri che escono dalle casse dell'erario ed emigrano verso le aziende in questione.

Quali aziende? Scelte con quali criteri? Che tipo di sostegno? Quali le dimensioni complessive d'un siffatto e così anomalo intervento?

Il presidente del Consiglio ha immediatamente indicato come oggetto del sostegno il settore automobilistico. Per l'Italia c'è un unico nome: Fiat. Dunque si tratterebbe di entrare nel capitale di quell'impresa e/o finanziare una rottamazione in grande stile con i soldi dei contribuenti e/o incentivare qualche banca ad effettuare prestiti di favore all'azienda di Torino.

Si può fare un'operazione "ad personam" di queste dimensioni senza alterare il mercato europeo e senza suscitare altrettante aspettative e richieste da parte di altre imprese e di altri settori produttivi?

Evidentemente no, non si può fare. L'economia italiana diventerebbe un "suk" (lo è già), i conflitti si moltiplicherebbero, i commercianti, l'industria media e piccola, i sindacati dei lavoratori, i trasporti, le "utilities": un bailamme al di là d'ogni previsione e di ogni governabilità.

Non credo che, consapevole di scenari di tal genere, Bruxelles autorizzerà un'operazione Fiat. Comunque non lo credo possibile né utile. Ecco un'altra prova della torrenziale e dannosa loquacità del presidente del nostro governo.

Se si tocca il tasto degli aiuti di Stato alle imprese si rischia di aprire un buco nero di proporzioni inusitate nel bilancio pubblico. L'ammontare del nostro debito è tale da non poterci permettere politiche così azzardate.

Sono possibili soltanto interventi generali che impediscano qualunque discrezionalità politica. Abbiamo attualmente un deficit/Pil di circa il 2,5. Bruxelles autorizzerà modesti e temporanei aumenti al di sopra del 3 per cento. Diciamo che si possa arrivare al 3,5, un punto di Pil, quindici miliardi di euro.
Questa è la cifra ragionevolmente spendibile, più una parte dei tagli di spesa che erano previsti per ridurre il disavanzo del bilancio.

A fronte di quest'ordine di grandezza, che si potrà spingere al massimo a 20 miliardi, c'è l'immenso fronte dei redditi delle famiglie e dei consumi da sostenere con provvedimenti indicati da tempo dall'opposizione.
Urgono cioè delle scelte precise, degli impegni concreti e una tempistica urgente. Stupisce il silenzio degli interessati, stupisce che Confindustria e Fiat siano pronte a negoziare i loro interessi senza riguardo a quelli generali della crescita. Stupiscono i "media" che prendono sul serio le uscite improvvisate dei dilettanti. Qui c'è da conoscere i meccanismi e farli funzionare perché rimettere in moto la crescita non ha a che vedere col miracolo di San Gennaro.

(19 ottobre 2008)

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Eugenio Scalfari, uno delle ultime grandi firme del giornalismo italiano.
I suoi fondi domenicali fanno sempre chiarezza.