venerdì 3 ottobre 2008

L'amore in una cella, una testimonianza



Davide Madeddu
L'Unità
3 ottobre 2008




È il dramma che non si racconta. Che tutti vivono in silenzio dentro la cella: quello di non poter toccare la pelle di una donna o anche di sentirne solo la voce anche lontano dal chiasso della sala colloqui. Elton Kalica, detenuto albanese racconta il suo dramma e i problemi in un lungo intervento pubblicato proprio da Ristretti Orizzonti, e scritto al termine di una sorta di tavola rotonda sul sesso, amore negato e carcere. Una lettera dura, cruda e diretta in cui Elton Kalica racconta il suo dramma, rimane in carcere dieci anni, che è poi quello che accomuna buona parte dei detenuti presenti nelle carceri d'Italia.

(d.m.)


«Qualche mese fa, leggendo dei giornali provenienti dall'Albania, il mio paese, mi sono imbattuto in una notizia che ho subito raccontato ad un detenuto italiano, che ha reagito in un modo che ho trovato assai singolare. Dico questo perché, nonostante i dieci anni passati in un carcere italiano, a volte mi trovo in difficoltà a capire certi comportamenti delle persone che ho intorno. La notizia in questione riguardava una protesta messa in atto dai detenuti delle carceri albanesi in seguito ad una circolare del Ministero che riduceva l'orario del cosiddetto "colloquio intimo".

«In tutte le carceri del Paese, dopo aver appreso la notizia, i detenuti hanno cominciato a manifestare la loro contrarietà sbattendo le pentole contro le sbarre e chiedendo il ripristino del vecchio orario. Il colloquio intimo è un istituto ereditato dal precedente regime comunista e che, in questi quindici anni di liberismo, è riuscito a sopravvivere e non è mai stato messo in discussione, eccetto questa modifica dei tempi che, secondo il governo, è stata imposta dal sovraffollamento, e quindi le stanze dell'intimità costruite per ospitare i condannati e le loro famiglie non bastano più per tutti. Da qui la decisione di portare la durata dei colloqui intimi a otto ore invece delle sedici previste precedentemente. Quando ho fnito di tradurre l'articolo, il mio compagno detenuto mi ha detto: "Che schifo, io di fronte alle guardie non farei mai all'amore con mia moglie", lasciandomi perplesso cucinare qualcosa per pranzare insieme, e vi è anche un letto matrimoniale in modo che se si vuole si può fare all'amore.

Questo tipo di colloquio in Italia non esiste e, mentre spero che qualcuno in questo Paese capisca il sentimento di scontento dei detenuti albanesi per riflettere sull'importanza dell'amore in carcere, mi ritrovo a discutere con detenuti che, per un senso di pudore, di amore in carcere non ne vorrebbero nemmeno parlare. Di certo non condividerò mai questo modo di pensare, poiché io invece dell'amore voglio proprio parlare, perché ritengo che dietro la mancanza dell'amore in galera si nascondono tormenti e si alimentano frustrazioni che non covano nulla di rieducativo, ma fanno soltanto danni. La questione secondo me sta tutta nel modo in cui si affronta da anni il problema degli affetti per i detenuti. C'è chi vede gli affetti come una necessità spirituale oppure come un bisogno strettamente sentimentale, altri li considerano come qualcosa che il condannato perde insieme alla sua libertà. Personalmente, vedo l'affetto come un miscuglio di sentimento d'amore e di necessità carnale, di cui l'uomo ha un continuo e fondamentale bisogno, indipendentemente dal posto in cui si trova. Sono sicuro che, se interpellate, molte persone daranno più importanza ai sentimenti, e forse diranno che se non ci sono i sentimenti della necessità carnale si può fare benissimo a meno.

Con molta probabilità anch'io se dovessi fare una mia "graduatoria" di quello che conta di più per me, tra il sentimento d'amore per una donna e il sesso, sceglierei naturalmente di mettere al primo posto il sentimento, però in un quadro generale delle mie esigenze immediate, di quello di cui mi hanno privato in anni di galera, se dovessi fare la stessa graduatoria, metterei il sesso prima di tutto, e se affermassi che mi basta il sentimento, direi una bugia». «Quello che non capisco di alcuni detenuti italiani è che, finché sono in carcere, rifiutano di avanzare qualsiasi richiesta di apertura verso una norma che permetta di fare sesso con la propria partner. Però appena si esce in permesso premio, la prima cosa che tanti fanno è proprio cercare una donna per fare all'amore. C'è anche chi ovviamente sogna un amore vero, anzi tutti sogniamo un amore vero, ma secondo me quando uno esce fuori dopo anni di carcere non va a cercarsi, perché non ne ha il tempo, una donna di cui innamorarsi, va a cercarsene una per recuperare il tempo perso, in pratica per fare sesso e basta. E questo vale anche per me. Sarei solo ipocrita, infatti, se dicessi che, se ho aspettato dieci anni prima di poter fare sesso, quando esco dalla galera posso aspettare per altri due o tre o sei mesi, finché trovo la donna giusta, finché trovo l'amore: se dovessi uscire oggi, io non aspetterei la donna giusta. Però il mio non è nemmeno un semplice istinto animale come potrebbe sembrare, perché di sicuro non cerco "un contenitore" in cui infilare il mio cazzo per vedere se funziona ancora dopo dieci anni.

Anzi, mi funzionano le mani così bene che potrei fare altri dieci anni di galera senza un "contenitore", tanto quei pochi secondi di piacere che accompagnano l'orgasmo hanno la stessa intensità, sia che lo raggiunga da solo, e sia che lo faccia nel corpo di una donna sconosciuta». «L'urgenza che esprimo dicendo di pensare al sesso si lega direttamente al danno fsico causato dalla privazione del sesso in carcere. Il contatto fisico con una donna non è un bisogno secondario di cui si può fare a meno, ma è una fondamentale necessità. Che non si limita soltanto al bisogno di scopare, ma che va oltre a tutto ciò, che risponde a un bisogno bruciante di poter abbracciare, toccare una donna, sentire la sua voce, accarezzare la sua pelle. Anche se si trattasse della prima ragazza rimorchiata al supermercato o di una prostituta, il mio desiderio personale è quello di poterla vedere nuda per qualche minuto, averla lì stesa di fronte a me per ricordarmi com'é fatta una donna. E potrei anche fare a meno di scopare, perché dopo dieci anni di galera, dopo 3650 seghe, non si ha bisogno di scopare, ma si ha bisogno di toccare il corpo di una donna, anche se non è la donna amata. Sarà anche triste, ma io considero questo semplicemente una necessità umana».

«E capisco benissimo le proteste che i miei compaesani portano avanti per riavere tutte le ore di intimità che gli sono state tolte, mentre non riesco a capire l'indifferenza con cui si vive in Italia questo problema, e la totale mancanza di richieste da parte dei detenuti di poter avere degli spazi di intimità, e mi lascia ancora più perplesso questa rassegnazione alla ineluttabilità della norma esistente che non prevede il sesso in carcere. E così, si aspetta solo pazientemente il primo "permesso premio" per "farsi un regalo" e recuperare il tempo perduto tra le braccia della donna amata, e chi non ne ha una, tra quelle di una prostituta».

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Una testimonianza forte e devastante.
Noi italiani facciamo veramente schifo, perfino in Albania i detenuti possano avere rapporti sessuali con le loro donne.
Il risultato è un incremento della omosessualità indotta, talvolta caratterizzata da azioni violente (un vero e proprio stupro che resta impunito, perchè chi lo subisce non parla).
Il detenuto in questione e tutti gli altri non ne parlano, non so per una sorta di rimozione o per non compromettere le scarse speranze (per me nulle, visto il clima politico di oggi) di ottenere una dsicplina della materia.
Devo anche dire che fortissima è la resistenza del personale di polizia penitenziaria, espressa attraverso le loro OO.SS., a mio giudizo del tutto ingiustificata.
In ogni caso ci vuole una modifica legislativa, che però nessuno vuole adottare perchè fortissimamente impopolare.