sabato 18 ottobre 2008

L'arbitrio al governo


PIERO IGNAZI
L'ESPRESSO


Il caso Alitalia dimostra come la classe dirigente è pronta a picconare lo Stato di diritto Il caso Alitalia costituisce la cartina di tornasole della persistenza di alcuni tratti tipici della cultura politica italiana: iper-corporativismo sindacale, uso discrezionale della legislazione e predilezione per furbizie e scorciatoie, inattitudine della sinistra a fare opposizione, retorica patriottarda, fiancheggiamento al potente di turno di una imprenditoria 'compradora', acquiescenza al potere degli intellettuali con contorno di liberismo alle vongole.

Se il catalogo è (ancora) questo, c'è poco da stare allegri: vuol dire che abbiamo azzerato gli sforzi di modernizzazione compiuti da minoranze virtuose negli ultimi 15 anni e che procediamo come gamberi scatenati via dall'Europa, diritti verso il peronismo.

Mettiamo sotto la lente il comportamento della classe imprenditoriale, quella che negli ultimi anni, sorvolando con nonchalance sui casi Parlamat e Cirio, è stata esaltata come la punta di lancia dell'Italia moderna. A parte quei settori dove si produce in regime di concorrenza globale, e che fanno la vera ricchezza della nazione, molti (ex o soi-disant) imprenditori si sono adagiati sulle reti di protezione pubblica garantite da tariffe, da concessioni, da barriere. Del resto, l'esempio viene dall'alto. Il nostro presidente del Consiglio, infatti, ha agito sempre in settori connessi con i pubblici poteri attraverso 'concessioni', vuoi edilizie, vuoi di frequenze televisive; il rischio d'impresa era azzerato dalla protezione politica, indiretta ai tempi di Craxi, diretta ora.

Nessuno stupore quindi che un gruppo composito di imprenditori abbia risposto all'appello pressante (e immaginiamo quanto pressante) del presidente del Consiglio a dar vita alla cordata per impiccare la vecchia Alitalia e sfornarne una nuova di zecca, ripulita dei debiti e pronta a spiccare il volo in tratte protette grazie all'intervento dello Stato. In effetti non c'è che da ammirare il coraggio di questi imprenditori che affrontano il rischio di affiancare il potente di turno, scaricano sui contribuenti il costo del deficit (almeno un miliardo di euro) accumulato dalla compagnia di bandiera e si tutelano per legge dalla concorrenza. Un modello di investimento di grande innovazione che certo entrerà nel novero dei più intriganti 'case study' delle Business School di tutto il mondo.

Qualcuno ricorda gli articoli grondanti di sdegno perché uno sprovveduto consulente economico di Romano Prodi aveva inviato un progetto di ristrutturazione aziendale al presidente di Telecom? Guai alla commistione politica-affari tuonavano le prefiche del liberalismo a 24 carati. E poi, come si indignava il centrodestra per l'asta promossa dal governo Prodi: la Fondazione Magna Carta sentenziava che "il governo si è deliberatamente sostituito al mercato nella funzione di determinatore di valore. Alitalia non sarà venduta al miglior offerente, rispettando il principio cardine del mercato competitivo, ma all'investitore il cui piano industriale sia 'più rispettoso' delle clausole imposte dal governo stesso". Oggi quegli stessi tacciono, intenti a guardare altrove o a distillare veleno sul sindacato reo di lesa maestà per non essersi piegato subito al volere del principe alato. Sono assai pochi coloro che hanno mantenuto la barra dritta sui principi proclamati in passato e non si sono accodati al coro nazional-popolare pro Cai.

Ma se questi atteggiamenti rimandano a carenze strutturali di una classe imprenditoriale e di un ceto intellettuale, per cultura e tradizione troppo avvinti e 'disponibili' al potere politico, il lato più oscuro della vicenda Alitalia sta in una provvidenza solo apparentemente marginale del governo: il grazioso dono elargito alla Cai della sospensione dell'antitrust per sei mesi. Una iniziativa geniale e semplice come l'uovo di Colombo: se c'è una norma, un regolamento, un istituto, che intralciano, basta sospenderli. Se questa è la cultura giuridica del governo in carica, un tale precedente potrebbe essere esteso anche ad altri ambiti. In fondo, Silvio Berlusconi, all'indomani delle elezioni del 2006, non voleva sospendere l'esito del voto? Perché non farlo la prossima volta, se necessario? E perché non sospendere la Corte Costituzionale se non si comporta bene sul lodo Alfano? Al di là della fantapolitica (speriamo), l'assenza di reazioni al diktat governativo evidenzia la drammatica sottovalutazione di cosa significhi introdurre l'arbitrio 'principesco' in un sistema politico complesso. Significa, semplicemente, incominciare a picconare lo Stato di diritto.
(03 ottobre 2008)

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