lunedì 20 ottobre 2008


MASSIMO GIANNINI
LA REPUBBLICA

Il lungo addio tra Partito democratico e Italia dei Valori si è infine consumato. A una settimana dalla manifestazione del 25 ottobre, la "rupture" decretata da Veltroni è per il centrosinistra un atto costitutivo di igiene politica, e un gesto tardivo di ricostruzione identitaria.

C'è una ragione tattica e congiunturale, che spiega la fine di questa alleanza spuria e antitetica. In Abruzzo è saltato definitivamente l'accordo che avrebbe consentito al Pd di saldare un asse solido e promettente con l'Udc, alla stregua di quello che è avvenuto in Trentino. Veltroni ha convinto Casini a siglare un patto elettorale in vista delle regionali di fine novembre: tu ritiri il tuo candidato, l'Idv ritira il suo, e tutti insieme troviamo una figura "terza" per il ruolo di "governatore", sulla quale convogliare tutti i nostri voti. Era fatta. E sarebbe stato un altro passo, forse decisivo, sulla via di una graduale ricomposizione politica tra la sinistra riformista (disintossicata dai germi massimalisti) e il centro cattolico (depurato dalle tossine berlusconiane). Ma Di Pietro ha fatto ciò che da tempo gli riesce meglio: ha detto no. E ha fatto saltare il tavolo.

La ferrea logica dei numeri dice ora che questa scelta, miope e irresponsabile, equivale a regalare l'Abruzzo al centrodestra. Se si considera che l'alzata d'ingegno dell'ex pm si produce nelle stesse ore in cui il Pd erige un muro persino esagerato per difendere come una "sua" bandiera la candidatura di Leoluca Orlando alla Commissione di vigilanza Rai, allora si capisce perché Veltroni debba aver considerato la misura ormai più che colma. E abbia deciso a sua volta di troncare il filo che lo teneva unito all'Italia dei Valori, già fragile e sfibrato soprattutto dopo gli attacchi insensati contro Napolitano riecheggiati tra la folla di Piazza Navona.

Ma c'è anche una ragione strategica e strutturale, che giustifica lo scioglimento di un "contratto" politico che, con tutta evidenza, non si doveva sottoscrivere. Fin dall'inizio, e cioè prima del voto del 13 aprile, l'accordo tra Pd e Idv è risultato strumentale e asimmetrico. Non si è capito in virtù di quale principio, nel ridefinire giustamente il perimetro delle alleanze dopo il disastroso fallimento dell'Unione e nel rivendicare con orgoglio il coraggio di presentarsi "da soli" alla resa dei conti con il Cavaliere, i riformisti abbiano concesso ai dipietristi la "deroga" che hanno negato a tutti gli altri, dai post-comunisti ai neo-socialisti. La necessità di coprirsi al centro, presidiando attraverso l'ex pm le piazze grilliste e giustizialiste, è parsa fin da allora una giustificazione ovvia, ma non sufficiente.

Ancora meno si è capito in virtù di quale principio, nel rinserrare le file dopo l'inevitabile disfatta elettorale, si è consentito a Di Pietro di rinegoziare unilateralmente i termini dell'accordo, e di rinnegare la pattuita costituzione di un unico gruppo parlamentare. Da allora, complice anche una linea "democrat" spesso timida e quasi sempre ondivaga, il tribuno di Montenero di Bisaccia ha occupato quasi per intero lo spazio politico dell'opposizione. Ha sparato sul quartier generale veltroniano, a colpi di cinica delegittimazione dell'alleato maggiore. E fingendo di assediare il Palazzo d'inverno berlusconiano, a forza di proclami populisti e barricaderi, ha finito per fare il gioco del Re di Prussia. Per lucrare una rendita di opposizione per se stesso, ha in realtà regalato una rendita di posizione al Cavaliere.

A questo punto si può chiudere una lunga stagione di ambiguità, che al Partito democratico ha recato solo danni. Ma la condizione è che, proprio alla vigilia di un rilevante appuntamento di piazza, il centrosinistra riformista riformuli il suo profilo di opposizione. Serve un'impronta più forte, più nitida, e soprattutto più coerente. E' difficile essere capiti dal cittadino, se un giorno si denuncia il rischio di "putinizzazione" della democrazia italiana e il giorno dopo si propone al "tiranno" uno scambio tra Commissione di vigilanza Rai e Corte costituzionale.

E' ancora più difficile essere votati dall'elettore, se un giorno si dichiara che il "dialogo è finito", e il giorno dopo si tratta su una pessima legge elettorale per le europee. Il Pd ora ha mani libere, e non rischia più di essere schiacciato sulle posizioni estreme di un alleato minore. Nel fuoco della crisi finanziaria e della recessione, ha molte frecce al suo arco per inchiodare il governo sulle misure di sostegno al reddito, ai consumi, agli investimenti. Rispetto a un centrodestra sempre più autarchico e autocratico, può scegliere una linea pregiudizialmente frontista o pragmaticamente trattativista. Ma fatta la scelta, ha il dovere di difenderla con rigore, e di assumerla come piattaforma per le future alleanze. E' finito il tempo delle geometrie variabili, dentro l'opposizione e nel rapporto tra opposizione e maggioranza.

Se il Pd vuole ricostruirsi come grande forza di alternativa e di governo, deve praticare la virtù dell'autonomia, senza coltivare il mito dell'autosufficienza. Nel test delle prossime amministrative l'Udc può essere una chiave, come lo sono le liste civiche con cui apparentarsi sul territorio.
Come dimostra il pessimo epilogo del caso Di Pietro, Veltroni fino ad oggi non è "andato da solo". Semmai è stato "male accompagnato". Questo errore non si deve più ripetere.

(20 ottobre 2008)

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Appare di tutta evidenza che Antonio Di Pietro non piace a Massimo Gannini.
Se posso, Massimo Giannini non piace a me, anche se ne riporto le idee.
Perchè ?
Perchè non pare si chieda se la scelta dissennata non sia di Veltroni che si è rifiutato di appoggiare il candidato dipietresco, che era ed è un candidato di rottura con il passato non limpidissimo di Ottaviano Del Turco.
Del resto, Veltroni non ha la tempra, la stoffa del politico di razza, è rimasto basito dalla sconfitta elettorale clamorosa e devastante, dalla quale pare non voglia o non sappia più ripendersi.
A me non piacciono quegli uomini, politici e non, che commettono errori che poi non vogliono riconoscere.
Veltroni di errori ne ha commessi parecchi ed ha la faccia di bronzo di continuare a volerli far passare come scelte coraggiose e di trasparenza, mentre sono state scelte dissennate e perdenti.
E', quindi, un ipocrita, perchè sa benissimo che oggi il volto della politica che piace all'elettore medio (ignorante e becero quanto si vuole, ma determinante) e quello DECISIONISTA.
E non si vuole far da parte, mentre Fabio Fazio, un altro bel campione di coraggio, gli fa da scendiletto come Bruno Vespa lo fa con Berlusconi.
DISGUSTOSO !