martedì 21 ottobre 2008

Se l’Italia cade nella spirale afghana



Gian Giacomo Migone
L'Unità

Continua la spirale di sangue in Afghanistan, con la morte di trenta civili a seguito di un attentato talebano. Migliorano, invece, le condizioni dei sette soldati italiani feriti a causa di un attacco suicida che ha avuto luogo sabato, ad Herat, la zona presidiata dalle forze armate italiane sotto comando Nato, secondo un mandato di peace keeping delle Nazioni Unite. Quel mandato non comprende la “coalizione di volonterosi” a guida americana, impegnata a stanare al Qaeda, in realtà a combattere tutti coloro che danno loro conforto, vero o presunto. Non soltanto i Talebani, ma la minoranza pashtun, quasi un quarto della popolazione afgana, cospicuamente presente anche oltre il confine pachistano. Due missioni distinte, ma destinate ad accavallarsi sempre di più, soprattutto agli occhi di una popolazione con una lunga e fiera tradizione che, volta per volta, li ha portati a scacciare qualsiasi invasore con perdite.

I nostri soldati sono stati colpiti in una fase immediatamente successiva alla visita spettacolare a Washington del presidente del Consiglio italiano, in cui egli è stato ringraziato dal presidente Bush per avere ampliato la missione dei nostri militari in Afghanistan (non si sa ancora in che termini, se quelli da tempo annunciati, e con quale autorizzazione parlamentare). Inoltre, l’attacco si è verificato alla vigilia dell’arrivo di due aerei Tornado che, dopo ripetute sollecitazioni da parte del governo degli Stati Uniti e del segretario generale della Nato, il Governo e i comandi militari italiani hanno destinato al fronte (chiamiamo le cose con il loro nome) afgano, pur precisando che, almeno in un primo tempo, essi saranno destinati a compiti di ricognizione.

Ammesso che sia così, resta difficile pensare che la popolazione locale, ripetutamente colpita da attacchi aerei alleati, sia disposta a distinguere, oltre che tra missioni con uno status giuridico diverso, anche tra aerei che individuano i bersagli e altri che li colpiscono. Appena giovedì scorso, secondo quanto riferito da funzionari governativi afgani, in località Nadali un attacco aereo della Nato avrebbe lasciato sul campo almeno 25 vittime civili, soprattutto donne e bambine; secondo l’International Herald Tribune, per ironica coincidenza, nello stesso momento in cui i portavoce del comandante supremo americano in Afghanistan, generale David McKiernan, stavano spiegando ai media presenti la sua nuova strategia di salvaguardia della popolazione civile. Questa revisione, evidentemente non ancora operativa, è stata sollecitata da un altro incidente analogo, ma ancora più cruento (almeno novanta civili, secondo fonti governative afgane e dell’Onu, solo parzialmente smentite dal comando statunitense), nelle settimane precedenti.

Di fronte ad un contesto di questa gravità politica e militare, l’attacco ai nostri militari non può essere liquidato con una peraltro doverosa dichiarazione di solidarietà, che vorremmo vedere estesa a vittime inermi di volta in volta colpite, da parte di questa o quella autorità italiana.

Nè servono manifestazioni di virilità da parte del ministro della Difesa, del tipo: «la missione proseguirà come precedentemente programmato». Non è in discussione la virilità dell’onorevole La Russa, bensì la capacità del Governo cui egli appartiene di valutare nel suo complesso una situazione che si va deteriorando a vista d’occhio. Inoltre, come mi è già capitato di scrivere, affermazioni, da parte dei nostri alleati, che tendono a confondere vincoli costituzionali e sempre più opportuni dubbi sull’impostazione della presenza della Nato in Afghanistan con una presunta indisponibilità dell’Italia a condividere oneri e rischi andrebbero respinte al mittente. In questo modo si eludono, sia a Washington che a Roma, i problemi posti dalla guerra in corso.

Non soltanto noi, le voci di esponenti militari italiani raccolte da Toni Fontana su l’Unità di domenica, bensì l’intelligence estimate della Cia e il capo di Stato Maggiore della Difesa statunitense sostengono pubblicamente che l’impegno internazionale in Afghanistan si trova in una spirale negativa. Il comandante britannico sul campo, da parte sua, ha affermato che quella guerra non può essere vinta, nemmeno con quel incremento di truppe che, purtroppo, persino Barack Obama, nel calore della campagna elettorale, si è visto costretto a chiedere (le prove di virilità non hanno frontiere). Quanto al governo di Kabul che siamo chiamati a difendere, esso lamenta i continui attacchi alla popolazione civile e auspica trattative con i Talebani. Cresce soltanto la produzione e il traffico della droga mentre l’acuirsi del conflitto violento attira terroristi di tutto il mondo, secondo la ricetta irachena. Tutto ciò non dice qualcosa ad un Governo e ad un Parlamento (maggioranza e opposizione compresi) che sono chiamati a rispettare l’articolo XI della Costituzione, che esclude la guerra come strumento di soluzione dei conflitti, oltre che valutare la sempre più urgente ridefinizione della missione Afghanistan? Una missione attualmente assai più vicina all’esperienza vietnamita di quanto non sia mai stata quella dissennatamente vissuta in Iraq. Forse è giunto il momento di una valutazione congiunta da parte dei governi europei a vario titolo presenti in Afghanistan. È particolarmente importante che giunga agli Stati Uniti un segnale forte prima dell’insediamento di un nuovo presidente. La presenza della comunità internazionale in quel paese grande e lontano non ha più nulla a che vedere con ciò che l’aveva originariamente ispirata - la volontà di colpire i responsabili dell’attentato alle Due Torri e di contribuire a costruirvi una democrazia - ed è bene prenderne atto, prima che sia troppo tardi.

g.gmigone@libero.it

Pubblicato il: 21.10.08

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

E' veramente gasato, non si riprenderà più.