mercoledì 15 ottobre 2008

UN NATALE A PIANOSA

di Luigi Morsello

Leggo sulla stampa: “Si avvia nell'isola l'esperimento di stanze destinate a rapporti familiari e intimi fra detenuti e coniugi. Lo ha annunciato il Dap.
Pianosa diverrà la prima struttura detentiva italiana destinata alla sperimentazione delle cosiddette "stanze dell'affettività", ovvero luoghi dove i dete
nuti potranno avere momenti di intimità con i propri partner. Lo ha dichiarato stamani a Pisa il dirigente regionale del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria (Dap) Maria Pia Giuffrida, nel corso della presentazione del libro "Lisistrata incatenata, da le Mantellate ai giorni nostri. Mezzo secolo di sopravvivenza carceraria al femminile".
Il problema della sessualità in carcere, già affrontato in molti paesi occidentali, vede l'Italia in forte ritardo dopo che, circa dieci anni or sono, l'allora direttore generale del Dap Michele Coiro, dette disposizione a tutti i direttori dei penitenziari, di predisporre spazi destinati a questa funzione.
Il carcere di Pianosa ospita, attualmente, soltanto il lavoro di alcuni detenuti in regime di semilibertà, ma già nei mesi scorsi era stato annunciato, con l'esponenziale crescita della popolazione detenuta, il suo totale recupero.
La Giuffrida, dell'occasione, ha auspicato anche la realizzazione, non solo in Toscana, di strutture Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri) la cui prima, positiva esperienza, è stata fatta dalle detenute madri di San Vittore, trasferite, da oltre un anno in una sorta di Casa famiglia alle porte di Milano.
(Tirreno Elba News, 21 settembre 2008).
Sono tre i motivi di meraviglia:
1) prende il via, finalmente, un esperimento inteso a consentire rapporti sessuali fra detenuti di ambo i sessi e loro consorti, rapporti eterosessuali, dunque;
2) la limitazione dell’esperimento ai soli coniugi;
3) la scelta della località, un’isola, Pianosa, nell’arcipelago toscano.
La ragionevolezza dell’iniziativa (già “cavallo di battaglia” di Michele Coiro, direttore generale pro-tempore) è offuscata da questo voler relegare l’esperimento in un’isola, già penitenziario e chiuso da tempo (legge 23 dicembre 1999 n. 65) e questo fatto assume una valenza simbolica ambigua, perché da una parte qualcuno ha preso il coraggio a quattro mani nell’avviare l’esperimento dall’altra poi non le ha usate tutte e quattro le mani per farlo sulla terraferma, in una grande città, presso un moderno istituto penitenziario.
La limitazione dell’esperimento ai soli coniugi taglia fuori le coppie eterosessuali di fatto. Quanto agli omosessuali meglio non parlarne.
Noi italiani siamo fatti così: male.
L’iniziativa di Michele Coiro data al 1996, in cui una circolare ministeriale, rimasta inascoltata, chiedeva ai direttori delle carceri di dichiarare la disponibilità di ambienti per i c.d. “rapporti affettivi”.
L’iniziativa non riscosse successo presso la polizia penitenziaria non solo, ma, paradossalmente, fra gli stessi detenuti, che pur considerando il rapporto sessuale un bisogno primario, pensano che il “surrogato” carcerario dell’amore non è da preferire all’aumento delle possibilità di uscita dal carcere per le varie finalità, nel cui ambito va annoverata quella naturalmente connessa dell’attività sessuale.
Sono stato in missione a Pianosa per un mese, dal 15.11 al 15.12.1980.
La direzione era cronicamente scoperta, i direttori fuggivano via rifugiandosi nella malattia; altrettanto facevano i ragionieri, quando non fuggivano con la cassa dell’istituto, ma accadde dopo quel periodo.
La disperazione indusse l’ispettore distrettuale dell’epoca dr. Guglielmo Nespoli a programmare la rotazione di direttori per un mese ciascuno. A me toccò quel periodo per malattia (vera) del direttore del carcere di Siena che doveva andarci (morì anni dopo per insufficienza renale grave, era quella la malattia, ma confesso che dubitai).
Pretesi anche questa volta (l’avevo fatto già in precedenza per altro incarico) un gruppo di lavoro, formato dal rag. Luigi Parisi, dal brigadiere Carangi Gabriele (per la sezione di Massima sicurezza della diramazione Agrippa) e dall’appuntato Sois Vinicio in funzione di autista, guardia del corpo e cuoco.
Era un grup
po di lavoro affiatato.
La diramazione Agrippa (nella foto), era stata usata per ricoverarvi i detenuti ammalati di T.B.C., che vi confluivano su assegnazione ministeriale, era anche istituita una speciale indennità di rischio.
Nel 1980 la sezione vene usata come sezione di massima sicurezza per ospitarvi i detenuti terroristi irriducibili, fu creata dal gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quando vi giungemmo noi la sezione aveva 80 detenuti terroristi irriducibili.
Pianosa, antica colonia penale, era caduta in decadenza, come praticamente tutti gli istituti penitenziari nel dopoguerra, ed era letteralmente fatiscente.
La situazione era incandescente, le BR erano diventate feroci, l’isola di Pianosa era oggetto di progetti di assalto (carte furono trovate in un covo a Livorno) dal mare.
Il 12 dicembre 1980 fu sequestrato il cons. Giovanni D’Urso, un valente magistrato direttore dell’Ufficio III detenuti, liberato il 15 febbraio 1981.
Del rapimento venni informato da una telefonata notturna del capo della segreteria del direttore generale “pro-tempore”, che mi chiama intorno 3,30 per dirmi anche di stare in massima allerta, perché si temeva un assalto all’isola da parte delle BR a corollario del sequestro, per liberare i “compagni prigionieri”.
Fu un mese intenso, la missione era continuativa, una sola volta tornammo in continente (ero direttore del carcere di S. Gimignano) per un solo giorno giusto per rivedere moglie e figli (ne avevo tre).
L’approdo all’isola era demoralizzante, si respirava un’aria pesante, intendo il clima psicologico che si leggeva sui volti di chi veniva e chi andava. Io venivo, il direttore che aveva finito il primo mese andava (mi pare fosse Tommaso Contestabile, ma non ne sono certo), ci scambiammo un fugace saluto sul molo del porto (vedi immagine), tutte qui le consegne.
Pensavo che Gorgona, in cui ero stato in missione in precedenza, fosse da Guinness dei primati quanto a disordine e fatiscenza, ma Pianosa mi fece ricredere.
L’unica struttura in ordine, nuova ed efficiente era quella del nucleo dei Carabinieri che assicuravano la sorveglianza esterna della diramazione Agrippa: tutto nuovo di zecca, in componenti prefabbricati eleganti, moderni. Il nucleo era comandato da un tenente, che si avvicendava anch’egli. Non c’era fra di loro né fatalismo né rassegnazione e ne avevano ben donde: facevano tutto in casa: vitto, alloggio e svago.
Raffrontato alla realtà del penitenziario era quel distaccamento un pugno in un occhio al personale di sorveglianza dell’amministrazione penitenziaria, e non solo.
Quando arrivammo a Pianosa il ragioniere capo era appena rientrato da molti mesi di malattia.
Ma procediamo con ordine.
Il primo impatto fu tale da generare sgomento. Era letteralmente tutto in disfacimento, edifici, arredamenti, servizi, collegamenti telefonici.
Buon Dio, che era stato fatto nel frattempo ?
L’ispettore Nespoli vi era stato direttore anni prima, ne raccontava come di un’sola felice. Come era potuto accadere che fosse stata ridotta in quello stato di abbandono, visibile a occhio nudo.
Faccio fatica a riordinare i ricordi per iniziare e da dove.
Ricordo solo che invidiai tantissimo il tenente dei carabinieri, che sembrava non felice della sua situazione: lui ! Ed io cosa avrei dovuto dire ?
Dunque, tutta l’isola era demaniale in consegna al Ministero di Grazia e Giustizia, fatta eccezione per un segmento adiacente al porto.
Trascuro gli edifici amministrativi e quelli adibiti ad alloggi demaniali per il personale con famiglia, oltre quelle per il direttore ed il maresciallo comandante, che erano e sono obbligatorie ed a titolo gratuito, che non erano male.
Solo la caserma agenti per gli accasermati era una vera indecenza.
Sporca, fatiscente, con l’impianto di riscaldamento guasto (mi fu detto, da anni), addirittura le finestre, in legno e senza scuretti, avevano tutti i vetri rotti e sostituiti con materiale di fortuna (cartone compensato, altro). Davvero incredibile.
La missione sarebbe dovuta durare, come in effetti fu, un solo mese, ma non ce la feci a disinteressarmi; chiesi perché l’impianto di riscaldamento non venisse riparato e fu risposto perché il termotecnico vantava crediti nei confronti della direzione che non riusciva ad incassare; chiesi perchè i vetri erano tutti rotti e mi fu risposto per vandalismo degli stessi agenti ai quali l’avvicendamento non veniva concesso (due anni di isola e poi altrove); chiesi perché non fossero stati sostituiti e mi fu risposto perché li avrebbero rotti di nuovo.
Era proprio così, uno stato di totale abbandono.
Non potevo rassegnarmi, andai in caserma agenti più volte, parlai con i singoli agenti (le riunioni collettive allora funzionavano poco), dissi loro che avrei fatto sostituire i vetri (era inverno faceva freddo, che diamine !) con materiale infrangibile (plexiglass da mm. 2,5 di spessore, antisfondamento), poi stava a loro non fare altre ca…te, perché io non ci sarei stato a far sostituire i nuovi vetri rotti.
Ordinai al termotecnico l’immediata riparazione dell’impianto di riscaldamento, minacciandolo di denuncia penale (interruzione di servizio di pubblica utilità, un po’ tirato per il collo, ma non potevo andare tanto per il sottile), assicurandogli il pagamento di tutti i suoi crediti prima di Natale, come feci.
Prima di passare aa altro devo spendere qualche parola sull’efficienza dei servizi contabili, giusto per dire che il rag. Parisi impiegò ben dodici giorni per preparare la verificazione di cassa (del denaro contante), dovette risalire con le registrazioni a diversi anni addietro, trovare gli errori correggendoli e registrare l’anno 1980 senza alcuna scritturazione (il ragioniere capo, lo ricordo, era stato in malattia per molti mesi): è quanto dire ! Per avere un termine di raffronto basti sapere che le verifiche di cassa degli istituti penitenziari di Firenze (compresi gli istituti penitenziari privi di autonomia contabile e contabilmente collegati con Firenze), mia prima sede di servizio, si impiegava, fra preparazione e effettuazione, non più di tre giorni ed io rappresentavo il direttore su sua delega.
Il dissesto contabile era totale e noi lo mettemmo a posto.
È tempo di descrivere le varie diramazioni del penitenziario, che erano cinque: la Centrale, la Giudice, la Sembolello, la Marchesa e l’Agrippa.
Quella in peggiori condizioni era la Centrale, di raccolta dei detenuti in arrivo e partenza e di smistamento: una bolgia, eppure di anni di servizio ne avevo tredici.
Le altre vivacchiavano, una era destinata agli internati per misura di sicurezza detentiva. In trenta giorni di servizio ininterrotto, domeniche comprese, non sono riuscito a vedere molto, molte cose mi sono sfuggite, altre non mi interessavano, tutto era angosciante.
Per dare la misura dell’indifferenza nei confronti degli agenti, indifferenza di livello centrale, ma anche distrettuale, racconterò un episodio, verificatosi di sera, col buio.
L’isola non era tutta illuminata, anzi, e i settori illuminati lo erano per modo di dire, la luce era davvero fioca.
Non saprei dire perché, ma mi venne desiderio di percorrere l’isola buia con la camionetta, volevo ‘ispezionare’ le sentinelle posizionate sul versante che dava sulla scogliera, anche se solo in film di guerra si poteva pensare che qualcuno di notte osasse scalarla, una caduta sarebbe stata mortale. Tuttavia era presidiata anche di notte da una sentinella armata, una sola e io volli verificare in quali condizioni, non immaginando cosa avrei trovato.
Il posto di guardia era in una delle torri costruite nel passato dell’isola quale colonia penale ed anche prima. La Pianosa è un’isola piatta, tuttavia l’autista, un brigadiere, procedeva con cautela (lo seppi dopo, cercava di catturare qualche coniglio selvatico abbagliato dai fari). Non si arrivava mai, gli dissi di accelerare, poi mi disse: siamo arrivati, ma dove ? chiesi io, lì di fronte, mi rispose, accese gli abbaglianti e si stagliò nel buio la torre di sorveglianza, un capolavoro di architettura nella sua semplicità. Guardai meglio, scesi e dissi: ma qui non c’è nessuno. No c’è, c’è, guardi meglio e abbassò i fari e allora vidi una lucina, fioca, appena percettibile nel vano di una finestrella. Gli chiesi perché non mettevano una lampadina più potente, si mise a ridere e disse: dotto’, qui corrente non ce n’è, quella è una candela!
Era proprio vero, volli salire e scala non ce n’era, prese dal buo una scala a pioli di legno e salimmo, lui avanti ed io dietro, per circa tre metri e mezzo, era molto buio e non si vedeva nulla, gli chiesi perché non accendeva una torcia elettrica ma non ne aveva, non in quel momento, non era una dimenticanza, non ne avevano proprio.
Un mondo di pazzi !
Non era finito, saliti chiesi al ragazzo, intirizzito, come stava, se c’erano novità (novità ! Comica questa domanda) gli dissi di accenderne due di candele, così aveva più luce, ma non ne aveva più.
Non basta, il brigadiere mi disse che non le forniva l’amministrazione ma le ‘prelevavano’ nella cappella, le rubavano al prete !
Era troppo.
Tornammo, feci qualche domanda, feci chiamare il titolare dell’emporio (c’era un emporio !), gli ordinai l’immediata consegna di fornelletti da illuminazione tipo ‘camping gaz’, con relative bombolette di dotazione, costituendo una scorta dell’uno e dell’altro prodotto:
fiat lux !
Così funzionavano le cose a Pianosa a dicembre 1980, con circa 80 terroristi in casa !
E adesso è il turno della diramazione Agrippa. Aveva un muro di cinta, sul quale la sorveglianza era assicurata dal nostro personale di custodia, quella esterna di esclusiva competenza dall’Arma dei Carabinieri.
Il personale di custodia poi di giorno effettuava la sorveglianza anche su quattro torrette metalliche esterne al muro di cinta (vedi immagine).
Ai quattro lati del muro di cinta erano stati installati quattro potenti riflettori, dotati ciascuno di un motore elettrico per orientarli ed un trasmettitore ad onde corte che trasmetteva impulsi di orientamento in modo da non lasciare mai una sola zona d’ombra.
Formidabile, vero ? Peccato che fossero sempre guasti !
Non erano stati ancora pagati, toccava a me e io mi rifiutai di pagare, ordinai che venissero effettuate subito le riparazioni, le cablature, “un accidenti che vi spacchi” dissi al titolare della ditta, ma se non funzionavano non sarebbero stati pagati, non da me. Non era una minaccia da poco, eravamo a fine esercizio, non prelevando i fondi per contanti il pagamento veniva rinviato di un anno almeno, per via del riaccreditamento nel conto residui dell’esercizio scaduto, nell’esercizio finanziario successivo, nel nostro caso il 1981.
Si dettero da fare, rimisero tutto a posto, firmarono il collaudo, io no, mi riservai e feci bene: quarantott’ore dopo la partenza dei tecnici i riflettori non si accesero ed io non pagai.
Era tutto così, un caos, una confusione, anche contabile, controlli a zero.
Con la diramazione Agrippa non è finita.
Un’altra sorpresa quando tentai di telefonare dall’ufficio al posto di guardia: niente linea, telefono muto. Mi informai sul perché e scopersi che la linea telefonica era aerea ed era stata tirata appoggiata ad alberi, un soffio di vento e il cavetto si spezzava.
C’era da diventare matti.
Allora chiesi di comunicare con le radio portatili: non ce n’erano, erano stati acquistati i Walkie-Talkie a batteria, le ordinarie comuni pile per torce elettriche. Non bastasse non c’erano batterie, tutte esaurite. Non è finita, acquistate le batterie (al solito emporio), non funzionavano.
Io a S. Gimignano avevo acquistato le radio portatili BOSCH, mi misi in contatto e ordinai sei radio da consegnare con la massima urgenza. Ne venivano ordinate da tanti istituti, la domanda superava l’offerta, arrivarono dopo la fine (programmata) della mia missione.
Il lettore si starà chiedendo se abbiamo finito con l’Agrippa: no, non ancora !
Una serie di celle era vuota per lavori, l’altra aveva solo un cancelletto di tondini di ferro sottili, dell’epoca in cui era un convalescenziario per detenuti affetti da T.B.C., ma lì dentro c’erano terroristi irriducibili !
Se la situazione era da indemoniati, io ero l’indemoniato giusto per risolverla. Anche questa volta mi attivai, chiamai il direttore dell’Ufficio 8°, gli rappresentai la situazione e gli chiesi di poter ordinare a trattativa privata 35 porte tamburate monoblocc
o in lamiera presso-piegate da 2 mm,, 3 mm. per il telaio, con cancello di sicurezza montato sullo stesso telaio (si vedono nell’immagine, riferita però alla diramazione Sembolello, successivamente alla mia missione), pretesi un telegramma di autorizzazione con prezzo determinato con preventivo di ditta specializzata mediante preventivo consegnato a mano, lo ottenni e feci l’ordinazione, con consegna e messa in opera necessariamente dopo la mia missione.
Era emergenza continua. E non era paranoia, non solo perlomeno.
Torno al sequestro D’Urso e alla raccomandazione di stare attenti, voci di assalto all’isola da parte delle BR toscane: era vero ! Era stato tutto pianificato, non ci fu perché il covo fu individuato a Livorno e il piano non fu realizzato, furono arrestati tutti qualche giorno prima.
Insomma, dormivano, letteralmente, con le armi sotto il cuscino e i due militari avevano anche un M.A.B. (Moschetto Automatico Beretta) in stanza con loro.
L’energia elettrica era prodotta da una centrale di proprietà dell’amministrazione penitenziaria, presente in isola, con gruppi elettrogeni con motore a scoppio diesel, il gasolio era rifornito da una nave cisterna, chiamata “bettolina”.
Veniva tutte le settimane, se non ricordo male. A volte, per il mare in burrasca, saltava il giro (non trasportava solo gasolio).
Ebbene, agli inizi di dicembre, seconda settimana, vi fu una burrasca particolarmente forte, che durò quattro-cinque giorni. Il secondo giorno l’operaio specializzato addetto alla centrale elettrica venne ad avvisarmi che il gasolio scarseggiava. Dico io, in isola, coi terroristi in casa, com’era possibile ciò ? Era possibile, purtroppo si.
Il ragioniere capo disse che l’ordinazione era stata fatta, ma il mare grosso impediva la consegna, ribattei perché non se ordinava un quantitativo maggiore, proprio in vista di queste eventualità, rara si, ma quando accadeva erano guai seri.
Ma tant’è, il guaio era fatto, non restava che sperare che la burrasca si esaurisse ed il mare si calmasse. Ma non si calmava.
Arrivò una mattina in cui l’operaio di cui sopra venne a dirmi che c’era gasolio solo fino alla ore 20, poi sarebbe finito, niente energia elettrica.
Una belle situazione kafkiana.
Avvertii chi di dovere, che saremmo rimasti senza energia elettrica, non c’era possibilità alcuna di soccorso, mare e vento impedivano.
Convocai i sottufficiali, li informai che alle ore 20 tutti a letto con le candele, niente energia elettrica, ognuno cautelasse se stesso e le proprie famiglie.
Mi guardarono in modo
strano, ma dissi loro che non era colpa mia.
Uscirono parlottolando fra loro. Dopo qualche minuto sento bussare alla porta dell’ufficio, era il vice brigadiere più anziano, di età non di grado. Mi fece presente che una soluzione c’era però …
Uscì un attimo, chiamò altri due sottufficiali i quali mi dissero che loro un poco di gasolio ce l’avevano da parte, io chiesi quanto ne avevano, 500, 1000 litri ?
Si guardarono, poi quello anziano mi disse, almeno 5000 litri, lo mettevano a disposizione però … un altro però. Però cosa ? chiesi. Risposta: ce lo deve ridare, senza formalità, appena sarebbe tornata la bettolina.
Una vera manna dal cielo. Avevo capito, anche i miei lettori forse hanno capito, ma non era il caso di far domande, anzi, mi assicurai che il prestito fosse rimborsato, senza badare al litro.
Fu così che la luce non andò via, sarebbe stato drammatico.
Quando finì la missione erano tutti dispiaciuti, ma di restare non se ne parlava nemmeno.
Fossi rimasto mi sarei evitato guai enormi, serissimi, ma nessuno può prevedere il futuro.

5 commenti:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Il racconto di un mese di missione a Pianosa sotto il Natale 1980 è tutto qui.
Invece, quella a Gorgona si articola in quattro puntate.
Ne mancano ancora due.

Anonimo ha detto...

Leggendo i tuoi ricordi, mi rendo conto che noi che non abbiamo(per fortuna)conosciuto il carcere non ci rendiamo conto di come si articoli la vita all'interno di un istituto di pena e di tutti i problemi e le restrizioni che riguardano i carcerati. Ecco, il sesso, ad esempio: io non mi ero nemmeno posto il problema. Ed è un problema grandissimo, specie per chi in carcere ci passa diversi anni. Non avendoci mai pensato, non saprei nemmeno quale soluzione proporre, ma credo che in ogni caso non riuscirei mai a trovare quella giusta per tutti.
Nonostante ciò, la lettura è stata molto gradevole.
rossana

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Grazie per il commento Rossana, ma constato che non ti sei nemmeno per un attimo sintonizzata sulla lunghezza d'onda giusta per capire il racconto, la narrazione di fatti veri.
Beata te !
Ma non trovi che sia una limitazione ?
Eppure potresti trovare la giusta chiave di lettura.

Anonimo ha detto...

Non so di quale chiave di lettura tu parli. Se ti riferisci ai tanti problemi e mancanze che hanno oppresso ed opprimono gli onesti e fattivi funzionari che spesso si ritrovano a dover fronteggiare da soli situazioni di assoluta emergenza, mi sembra che ne abbiamo già parlato.
Io ti riconoscevo il merito di aver suscitato oggi in me una scintilla di comprensione e di solidarietà nei confronti di persone che si trovano a vivere anni della loro vita in condizioni assolutamente diverse da quelle della gente comune, come me. Confesso che soltanto ora ho considerato quelle persone come realmente esistenti, e non soggetti di un racconto o di un film. In sostanza, il valore di ciò che uno scritto propone, aumenta quanto più è in grado di suscitare riflessioi in chi legge, passando dal particolare al generale. O no?
rossana

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

La chiave di lettura si chiama: IMMEDESIMAZIONE.
Ciao.