di Angelo Panebianco
IL CORRIERE DELLA SERA
La manifestazione di sabato scorso ha dato a Veltroni una rinnovata forza politica. È sperabile che egli se ne serva per sottrarsi alla trappola in cui sindacati e proteste studentesche, ma anche Berlusconi, lo hanno fin qui sospinto. La trappola consiste nel fare del Partito democratico il campione del «cartello dei no», di una coalizione di interessi che difende lo status quo in settori come la scuola o il pubblico impiego. Per il fatto che impiegati pubblici e insegnanti rappresentano una parte rilevante della constituency elettorale del Partito democratico, del bacino da cui provengono i suoi voti, l’attivismo del governo in quei settori crea obiettivamente un serio problema a Veltroni. Ma l’arroccamento, il «no» ad ogni provvedimento, spiegabile con la condizione di debolezza in cui l’opposizione si è trovata dopo le elezioni, rischia di diventare suicida. Due ministri in particolare, Brunetta (Pubblica amministrazione) e Gelmini (Istruzione), stanno toccando importanti santuari elettorali del Partito democratico. Ciò spiega l’astio nei loro confronti degli esponenti di quel partito e dei suoi giornali d’area (Il Riformista escluso). Tanto più che i due ministri si muovono in un modo insidioso per i difensori dello status quo. Non hanno fatto l’errore di proporre l’ennesima «Grande Riforma» della pubblica amministrazione o della scuola. In Italia le Grandi Riforme non portano da nessuna parte, finiscono con un buco nell’acqua. Brunetta e Gelmini si sono mossi invece pragmaticamente, mettendo in fila un provvedimento dopo l’altro.
Questo modo di procedere è insidioso per gli oppositori perché rende difficile dire sempre no. Si può contestare un provvedimento o l’altro ma si diventa poco credibili se li si contesta tutti. L’accresciuta forza politica di Veltroni dovrebbe aiutarlo a riprendere un cammino (prefigurato in campagna elettorale) teso a fare del Partito democratico una vera forza riformatrice. In materia di pubblica amministrazione come di scuola ciò può solo significare assumere posizioni davvero indipendenti da quelle del sindacato. Sulla scuola, ad esempio, la difesa sindacale della «quantità» (tanti insegnanti mal pagati) a scapito della qualità non dovrebbe più trovare, come fin qui è stato, l’appoggio del maggior partito di opposizione. Il che significa che il confronto con il governo dovrebbe spostarsi dal tema della quantità (no ai tagli, sempre e comunque) a quello della qualità (idee per migliorare la qualità dell’insegnamento). Né le cose dovrebbero andare diversamente nel caso dell’Università. Non siamo al ’68. Gli studenti occupanti godono dell’incoraggiamento aperto di quella parte della docenza che non desidera un uso più responsabile dei soldi pubblici.
Alcune delle Università più virtuose ed efficienti si sono già smarcate dalla protesta. Se il governo avrà su questo punto un ripensamento (magari anche spronato in questo senso dall’opposizione) ed eviterà l’errore di tagliare i fondi in modo uniforme, mettendo sullo stesso piano gli atenei efficienti e quelli inefficienti, se procederà premiando i primi e punendo i secondi, assisteremo finalmente a un bello scontro frontale (il Paese ha solo da guadagnarci) fra la buona Università e quella cattiva. Si tratti di scuola, di pubblica amministrazione o di università, il Partito democratico deve dunque ricalibrare la sua azione. Le proposte di riforma (in dieci punti) appena avanzate dal Pd in materia di istruzione sono ancora troppo generiche (è facile dire che si vuole premiare il merito; il difficile è farlo) e sembrano, più che altro, un mezzo per fare fuoco di sbarramento contro la Gelmini. Più di proposte generiche servirebbe, da parte del Pd, un serio ripensamento sui problemi dell’università e della scuola. Per esempio, ci vorrà pure, prima o poi, una pubblica spiegazione sul perché, a suo tempo, Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione del primo governo Prodi, venne bruciato, fatto fuori, quando tentò di introdurre (contro i sindacati) un po’ di meritocrazia negli avanzamenti in carriera degli insegnanti. Riflettere sugli sbagli del passato è l’unico modo per non ripeterli in futuro. E per non trovarsi (di nuovo) a marciare accanto a chi difende cause indifendibili.
30 ottobre 2008
IL CORRIERE DELLA SERA
La manifestazione di sabato scorso ha dato a Veltroni una rinnovata forza politica. È sperabile che egli se ne serva per sottrarsi alla trappola in cui sindacati e proteste studentesche, ma anche Berlusconi, lo hanno fin qui sospinto. La trappola consiste nel fare del Partito democratico il campione del «cartello dei no», di una coalizione di interessi che difende lo status quo in settori come la scuola o il pubblico impiego. Per il fatto che impiegati pubblici e insegnanti rappresentano una parte rilevante della constituency elettorale del Partito democratico, del bacino da cui provengono i suoi voti, l’attivismo del governo in quei settori crea obiettivamente un serio problema a Veltroni. Ma l’arroccamento, il «no» ad ogni provvedimento, spiegabile con la condizione di debolezza in cui l’opposizione si è trovata dopo le elezioni, rischia di diventare suicida. Due ministri in particolare, Brunetta (Pubblica amministrazione) e Gelmini (Istruzione), stanno toccando importanti santuari elettorali del Partito democratico. Ciò spiega l’astio nei loro confronti degli esponenti di quel partito e dei suoi giornali d’area (Il Riformista escluso). Tanto più che i due ministri si muovono in un modo insidioso per i difensori dello status quo. Non hanno fatto l’errore di proporre l’ennesima «Grande Riforma» della pubblica amministrazione o della scuola. In Italia le Grandi Riforme non portano da nessuna parte, finiscono con un buco nell’acqua. Brunetta e Gelmini si sono mossi invece pragmaticamente, mettendo in fila un provvedimento dopo l’altro.
Questo modo di procedere è insidioso per gli oppositori perché rende difficile dire sempre no. Si può contestare un provvedimento o l’altro ma si diventa poco credibili se li si contesta tutti. L’accresciuta forza politica di Veltroni dovrebbe aiutarlo a riprendere un cammino (prefigurato in campagna elettorale) teso a fare del Partito democratico una vera forza riformatrice. In materia di pubblica amministrazione come di scuola ciò può solo significare assumere posizioni davvero indipendenti da quelle del sindacato. Sulla scuola, ad esempio, la difesa sindacale della «quantità» (tanti insegnanti mal pagati) a scapito della qualità non dovrebbe più trovare, come fin qui è stato, l’appoggio del maggior partito di opposizione. Il che significa che il confronto con il governo dovrebbe spostarsi dal tema della quantità (no ai tagli, sempre e comunque) a quello della qualità (idee per migliorare la qualità dell’insegnamento). Né le cose dovrebbero andare diversamente nel caso dell’Università. Non siamo al ’68. Gli studenti occupanti godono dell’incoraggiamento aperto di quella parte della docenza che non desidera un uso più responsabile dei soldi pubblici.
Alcune delle Università più virtuose ed efficienti si sono già smarcate dalla protesta. Se il governo avrà su questo punto un ripensamento (magari anche spronato in questo senso dall’opposizione) ed eviterà l’errore di tagliare i fondi in modo uniforme, mettendo sullo stesso piano gli atenei efficienti e quelli inefficienti, se procederà premiando i primi e punendo i secondi, assisteremo finalmente a un bello scontro frontale (il Paese ha solo da guadagnarci) fra la buona Università e quella cattiva. Si tratti di scuola, di pubblica amministrazione o di università, il Partito democratico deve dunque ricalibrare la sua azione. Le proposte di riforma (in dieci punti) appena avanzate dal Pd in materia di istruzione sono ancora troppo generiche (è facile dire che si vuole premiare il merito; il difficile è farlo) e sembrano, più che altro, un mezzo per fare fuoco di sbarramento contro la Gelmini. Più di proposte generiche servirebbe, da parte del Pd, un serio ripensamento sui problemi dell’università e della scuola. Per esempio, ci vorrà pure, prima o poi, una pubblica spiegazione sul perché, a suo tempo, Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione del primo governo Prodi, venne bruciato, fatto fuori, quando tentò di introdurre (contro i sindacati) un po’ di meritocrazia negli avanzamenti in carriera degli insegnanti. Riflettere sugli sbagli del passato è l’unico modo per non ripeterli in futuro. E per non trovarsi (di nuovo) a marciare accanto a chi difende cause indifendibili.
30 ottobre 2008
1 commento:
E' sul piede di guerra tutto lo stato maggiore del Corriere, Questo qui è un pezzo da novanta.
Si vede che Berlusca è all'attacco, nel tentativo di recuperare consensi popolari, dei quali non può fare a meno, sono la sua dipendenza personale.
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