sabato 29 novembre 2008

IL MALE OSCURO - LE INGIUSTIZIE PATITE- CHI NON CE' PIU'

(mitraglietta Beretta M. 12)


di Luigi Morsello

QUATTRO

Ebbene, il 30 giugno 1983 nell’atrio dell’ingresso della casa penale di Alessandria trovai schierati 44 agenti in varie file in modo da riempire tutto l’atrio e impedire a chiunque di passare: avevano bloccato l’ingresso e nessuno poteva entrare o uscire senza il loro permesso.
A me fu detto dall’agente a capo di quel manipolo di agenti che io non ero più il loro direttore e che non potevo più entrare in carcere e accedere alla direzione.
Si erano, lo ripeto, ammutinati, contro il loro direttore, contro di me !
Erano stati anche chiaramente sobillati a farlo. Da chi non è possibile nemmeno oggi per me dirlo con certezza.
Era sintomatico che fra loro non ci fossero dei sottufficiali e che il maresciallo comandante, pur in servizio come i sottufficiali del turno, non ne avessero avuto, come poi dissero dopo, nessun sentore.
La casa penale di Alessandria, lo ripeto, era un istituto particolarmente sensibile, tant’è che direttori con maggiore anzianità della mia non avevano voluto esservi trasferiti.
Riassumiamo: c’erano le sezioni per detenuti comuni in un sistema di celle cubicolari; c’erano la sezione speciale e la sezione ristrutturata; nella sezione ristrutturata c’era addirittura il figlio di un potente uomo politico del tempo, Carlo Donat Cattin.
Inoltre, la sezione ristrutturata, proprio quella che ospitava Marco Donat Cattin, era turbolenta, tanto da motivare un quasi intervento di un nucleo di agenti di custodia in tenuta antisommossa per farli rientrare nelle celle anche con l’uso della forza.
Il 90% dei detenuti terroristi, pentiti e dissociati, erano di competenza nel Nucleo Speciale Antiterrorismo di Torino.
Il maresciallo comandante era un protetto dell’uomo politico, tant’è che i detenuti ex terroristi sicuramente facevano il proprio comodo all’interno delle sale colloquio delle due sezioni.
La ciliegina sulla torta erano gli ottimi rapporti miei con i due funzionari della questura.
Il tutto in una cornice di lassismo intollerabile in un carcere così delicato. Addirittura i cortili di passeggio delle due sezioni “particolari” erano stati schermati con rete metallica fatta mediante lamiera stirata, per proteggerli dall’alto: si temeva a Roma che le B.R. ancora latitanti potessero tentare un colpo di mano lanciando ordigni esplosivi con un elicottero e fu disposto su scala nazionale il divieto di sorvolo aereo: paranoia allo stato puro ! Inoltre, non eravamo dotati di armamento antiaereo da utilizzare in caso di contrasto di un attacco dall’alto.
Il muro di cinta era dotato di cinque garitte di sentinella collegate con un camminamento di ronda. Vi si accedeva da un lato su cui insistevano anche gli alloggi di servizio del direttore e del maresciallo comandante, dai quali il camminamento di ronda e le garitte si vedevano quasi tutte. Il cambio delle sentinella avveniva ed avviene tuttora con un graduato incaricato del cambio della guardia, che doveva percorrere assieme al turno montante tutto il camminamento per iniziare il cambio dall’ultima garitta e procedere a ritroso. L’armamento era costituito da mitragliette Beretta m. 12 cal. 9 parabellum con caricatore da 32 colpi, che può sparare 550 colpi al minuto. La procedura veniva violata, le ultime due sentinelle lasciano l’arma nella garitta e si recavano verso la garitta n. 3 mentre il responsabile della guardia effettuava il cambio nelle prime tre garitte, qui gli ultimi due agenti raggiungevano da soli le ultime due garitte. Ciò comportava il temporaneo abbandono di due mitragliette nelle garitte n. 4 e 5 e la mancata consegna delle due armi alle sentinelle montanti con la previa ispezione del munizionamento: una violazione gravissima, da Tribunale militare , ma non denunciai nessuno, mi limitai a fare una ramanzina agli addetti ai cambi di guardia.
Non avrei dovuto fare nemmeno quello. Io credo che qualunque cosa avessi fatto sarebbe stata letta in modo ostile, salvo lasciare il carcere allo sbando, com’era quando ne assunsi la direzione.
Naturalmente, ordinai di sciogliersi e di farmi passare, mi fu opposto un rifiuto; tentai di fendere il manipolo di agenti per andare in direzione e qui accadde la cosa più clamorosa: due agenti mi presero sottobraccio, mi sollevarono di peso e mi buttarono fuori dal carcere !
Questa situazione durò tutta la mattina, accorsero da Torino e da Roma, il comandante regionale cap. Giosuè Camilleri riuscì a convincerli a desistere. Ed io potei finalmente entrare in servizio.
Arrivò un’ispezione ministeriale, che non trovò miei comportamenti vessatori nei confronti del personale militare. Passarono al setaccio registro dei rapporti disciplinari, registro del servizio agenti, conclusero che il direttore non aveva responsabilità per quanto era accaduto e che l’accadimento era dovuto al lassismo durato per troppo tempo in quel carcere prima del mio arrivo e dalla insofferenza alla disciplina di quel distaccamento di agenti di custodia.
Sapevo che non sarebbe finita così, era la classica situazione di incompatibilità ambientale, prima o poi avrebbe prodotto i propri frutti: il mio trasferimento, il terzo dal 1980 al 1983.
Ma soprattutto volli capire perché era successo e come mai non era trapelato nulla e a sapere erano stati in molti.
Sapevo che la stragrande maggioranza di quel manipolo di agenti era stata condizionata a partecipare, però li denunciai tutti alla Procura Militare della Repubblica presso il Tribunale Militare di Torino. Aiutai il P.M. militare a fare le indagini, terminate delle quali furono arrestati in rapida successione cinque agenti e tre brigadieri, uno dei quali nemmeno in servizio nella casa penale ma nella casa circondariale.
Gli arrestati furono prima interrogati e poi tradotti in un carcere militare, ma non fecero risalire al maresciallo comandante Semerano e meno che mai agli ispiratori dell’ammutinamento del quali lui era stato il tramite e i poveri agenti gli esecutori materiali.
Come andò a finire ?
Vi sono dei fili che non si potevano toccare: “chi tocca i fili muore” !
Quindi non fu possibile provare chi erano stati i mandanti, anche se un’idea ce la eravamo fatta.
Gli agenti furono processati ed assolti per intervenuta amnistia. Furono successivamente sottoposti a procedimento disciplinare ed uno di essi ebbe l’improntitudine (o la disperazione ?) di chiedere aiuto a me per le discolpe. Ed io gliele feci !
Dopo qualche mese il cons. Giuseppe Falcone, direttore dell’Ufficio del personale civile, come da copione mi convocò a Roma e mi disse di scegliermi una nuova sede. Dissi che mi sarei dovuto consultare in famiglia, ma non lo feci, la tirai per le lunghe fino a quando Falcone non mi convocò una seconda volta e mi disse che dovevo dare l’indicazione, altrimenti avrebbe operato d’ufficio.
Ero profondamente nauseato, scelsi di tornare a Lonate Pozzolo, per la seconda volta a metà anno scolastico, per cui la mia famiglia restò ad Alessandria fino a giugno 1984.
Di tutti gli operatori degli istituti penitenziari alessandrini ricordo una sola persona con vera stima ed amicizia, si chiama Domenico Conforti, era un appuntato che aveva prestato servizio in qualità di autista prima al Procuratore della Repubblica e poi al presidente del tribunale di Alessandria, poi era stato restituito perché erano stati assegnati gli autisti civili ed aveva continuato a fare l’autista per me e per la direzione; gli dissi:” Ti devi accontentare di me !”.
Lui non aveva saputo nulla del progetto di ammutinamento, aveva volontariamente evitato ogni contatto con i colleghi, non se ne fidava.
Mi disse che non sarebbe restato nemmeno lui in servizio al carcere, dopo qualche mese si dimise, assunse servizio presso la Pretura di Alessandria come custode tuttofare.
Ho già riferito di quanto accadde nel lasso di tempo dal 1984 al 1987 (trasferimento a Lonate Pozzolo e dopo nemmeno 15 giorni a Busto Arsizio, con la direzione di entrambi i due carceri).
L’essere in servizio a Busto Arsizio e, contemporaneamente a Lonate Pozzolo, dove abitavo non significò disinteresse per l’uno a danno dell’altro, anzi.
A Busto Arsizio l’ospite più illustre fu Angelo Epaminonda, detto “il tebano”, per ospitare prima lui e poi altri della sua banda che erano stati arrestati per la sua collaborazione, fu necessario distrarre dalla sua originaria destinazione la “Sezione di semilibertà”, interna al muro di cinta e vuota, mai utilizzata. Proveniva dal carcere di Voghera, arrivò con un televisore, un videoregistratore e un mucchio di cassette porno, che deteneva abusivamente, l’amministrazione centrale ovviamente non autorizzò la consegna delle cassette porno.
Era un uomo terribile, un sanguinario, si era accollato numerosi omicidi dei quali molti eseguiti di persona. Fu necessario adottare cautele particolari (era ancora fresco il ricordo del ‘suicidio’ di Michele Sindona nel carcere di Voghera), un turno di servizio specifico (18 agenti più un sottufficiale).
Era stato arrestato dal dr. Giuseppe Di Maggio, P.M. del Tribunale di Milano, figlio di un maresciallo dei carabinieri, diventò successivamente vice direttore generale delle carceri, deceduto l8 ottobre 1996 nell’ospedale di Genova dove attendeva un trapianto di fegato, aveva 48 anni. Era un omone, grande e grosso, siciliano, occhi azzurro ghiaccio, penetranti.
Per capirlo meglio riporto il necrologio che ne fece Piero Colaprico (La Repubblica, 8 ottobre 1996): “Dopo la laurea, faceva l'avvocato a Monza, ma suo padre lo "guardava strano". Non gli piaceva che difendesse chi vive di reati. E così, nei primi anni Ottanta, era diventato sostituto procuratore a Milano. Erano gli anni delle bische, delle guerre di mafia, lui insieme a Davigo coordinò tutte le fasi dell' inchiesta che portarono alla cattura dell' ultimo gangster, Angelo Epaminonda, detto il "Tebano". Ne studiò le coperture dentro magistratura e forze di polizia, seguì una traccia che metteva il boss in contatto con uomini legatissimi a Bettino Craxi. Non aveva, Di Maggio, preoccupazioni diplomatiche. "O si sta di qua o di là", era il suo motto. E ne aveva dato prova pubblica nel marzo del 1990, quando venne chiuso a Roma l' Alto commissariato alla lotta alla mafia, dov' era andato a lavorare, sostenendo che "la mafia non è solo Palermo, la mafia è a Roma, a Milano...". Invitato al "Maurizio Costanzo show", spiegò di non sentirsi "suddito" e puntò il dito - clamorosamente - contro Csm e politici, che non avevano permesso alla loro struttura, presieduta da Domenico Sica, di andare avanti. Se n'era andato a Vienna, nominato consulente giuridico per l' Organizzazione delle Nazioni Unite. Ed era tornato "operativo" nel 1993, con l' incarico di vicedirettore delle carceri italiane. Ha usato il pugno di ferro contro i capiclan, ha fatto in modo che a sorvegliare detenuti eccellenti ci fossero - raccontava - "agenti sardi, molto seri, che quando un boss prova a fare amicizia, gli rispondono: ' Taci, prigioniero' ". Ma, dopo poco, se n'era ritornato a Vienna, sbattendo la porta. Massiccio, 140 chili, una voce profonda, occhi mobilissimi, aveva una vitalità spaventosa: se stava in compagnia di amici, Di Maggio era capace di parlare, scherzare, raccontare aneddoti e mangiare, fumando, per ore.”.
Epaminonda era ingestibile, metteva in croce, insultava il personale, sempre furioso contro qualcuno o qualcosa, si era lamentato anche del trattamento in carcere, tant’è che il dr. Di Maggio mi convocò a Milano, mi interrogò su tali lamentele e mi verbalizzò, addirittura.
Non contento, il dr. Di maggio provocò un incontro ministeriale, presente anche il dr. Guglielmo Muntoni, Giudice Istruttore e io da una parte, dall’altra il dr. Niccolò Amato – Direttore Generale -, il dr. Giuseppe Falcone – Direttore dell’Ufficio del personale civile -, e il dr. Crescenzo Di Blasio, detto “Enzo”, direttore amministrativo (che era stato mio vice direttore a San Gimignano e allora era in auge).
Fummo trattati come pezze da piedi, non fu accordata la benché minima digressione dalle regole dell’ordinamento penitenziario, Epaminonda era un detenuto come gli altri. Il dr. Di Maggio si convinse che io non c’entravo.
Epaminonda si incazzò e il 20 marzo 1987 ritrattò le sue confessioni con una lettera al presidente della quarta Corte d’assise di Milano.
Ecco cosa scrive Fabrizio Ravelli (La Repubblica del 20 marzo 1987): “La marcia indietro del Tebano ha quindi le caratteristiche di un tentativo di pressione, o di un ricatto addirittura. Epaminonda si sente abbandonato e tradito dallo Stato. Ma che cos' erano quei mari e monti che gli sarebbero stati promessi? Nessuno lo vuol dire ufficialmente, ma par di capire che in cambio delle sue rivelazioni al Tebano erano state date assicurazioni che la sua famiglia sarebbe stata tutelata da vendette, che il trattamento carcerario non sarebbe stato troppo pesante, e che, forse, si sarebbe arrivati all' approvazione di una legge su misura per i pentiti mafiosi. La legge non è arrivata. La protezione alla famiglia è stata a fasi alterne, e a quanto pare affidata più che altro alla buona volontà di alcuni. C'è per esempio agli atti del processo un' istanza del difensore del Tebano che segnala come la tutela dei famigliari dell' imputato fosse stata abbandonata. Quanto al trattamento carcerario, anche per evitare accuse di favoritismi, è stato tutt'altro che privilegiato. Epaminonda, da quando ha siglato i suoi verbali, è stato trasferito in carcere, mentre molti altri pentiti se ne stavano più tranquilli nelle caserme. E di carceri Epaminonda ne ha girate parecchie: Bergamo, Voghera, Busto Arsizio, e infine Alessandria. Il Tebano, abituato alla bella vita, se ne è sempre lamentato. L'ultimo colpo per la sua sicurezza di pentito è arrivato la settimana scorsa. Il giudice istruttore di Brescia ha prosciolto il procuratore di Voghera Romeo Simi de Burgis, che Epaminonda proprio in apertura delle sue confessioni aveva accusato di corruzione.”
Divenne sempre più intrattabile per cui fu necessario un abboccamento nell’ufficio del capoposto della ex sezione di semilibertà, presenti il sottufficiale, due robusti agenti nella stanza e due fuori, in cui gli feci capire che se avesse continuato ad insultare e rendere la vita impossibile al personale non rispondevo più della loro reazione, gli feci capire che potevano anche riempirlo di botte (e gli agenti sapevano come fare a non lasciare tracce permanenti), gli dissi anche che quello che era stato (un boss terribile e sanguinario) non lo era più perché era in carcere ed era anche un collaboratore, un “infame” nella liturgia mafiosa, non aveva più alcun potere.
Era davvero un uomo intelligente, smise di sbraitarmi contro e di minacciarmi, restò silenzioso durante la mia esposizione, finita la quale chiese se poteva andare, se ne andò in un silenzio, cupo. Dopo poco fu trasferito presso la caserma Pastrengo dei carabinieri in Milano e non ne ho più saputo nulla.
Se gli veniva fatta mancare anche l’aria che respirava non era certo colpa mia o del mio personale.
Prima di andar via risolsi un altro enorme problema: il sistema fognario !
C’era un tratto di circa 900 metri da fare e che non toccava alla CO.DE.MI., ma al comune di Busto Arsizio, per allacciare le fogne del carcere a quelle comunali, ma il comune non aveva soldi. A monte c’era, probabilmente, qualcos’altro, ma ero io a stare fra l’incudine e il martello.
La CO.DE.MI. aveva costruito una vasca di decantazione delle acque luride e due pozzi perdenti che smaltivano il tutto nel sottosuolo: il rischio di inquinamento di una falda acquifera freatica era alto.
I pozzi perdenti non erano sufficienti, dopo nove-dieci mesi si sigillarono senza più disperdere nulla e il liquame tracimava dalla vasca di decantazione nel piazzale sterrato all’ingresso del carcere !
Fu fatto un intervento di ripristino della permeabilità dei pozzi perdenti, ma mi fu detto che non se ne potevano fare altri, perché tecnicamente impossibile. Non so, non credo fosse vero, ma ero privo di qualunque tutela, sia dall’amministrazione penitenziaria che dalle OO.PP., sia perché non avevano fondi per fare dei nuovi pozzi perdenti, sia perché l’obbligo era a carico del comune.
Ovviamente, trascorso un paio d’anni l’inconveniente si verificò di nuovo, questa volta definitivo, perché era anche scaduta la garanzia del carcere, salvo i vizi occulti.
Tutto il piazzale d’ingresso del carcere fu sommerso dai liquami, tutti fingevano di non accorgersene, anche la commissione ispettiva guidata da Raffaele Ciccotti di verifica della statica del muro di cinta.
Era una disperazione. Si spesero tanti di quei soldi per svuotare pozzi neri e vasca di decantazione tramite un’impresa specializzata, operazione che veniva fatta due volte la settimana.
Dove andassero a scaricarli non lo so, so però che erano, se usati in agricoltura (Lonate Pozzolo mi insegnava), un ottimo fertilizzante. Ho il sospetto che la ditta ci guadagnasse due volte.
Esasperato, la tarda primavera del 1987 decisi di fare di testa mia, chiamai una ditta specializzata di mia fiducia, feci fare un preventivo che feci congruire alle OO.PP. di Milano, lo inoltrai minacciando in caso di mancato finanziamento di convocare l’ufficio di igiene e far apporre i sigilli al carcere: ero io adesso che mi “ammutinavo” !
L’autorizzazione e il finanziamento pervennero in agosto (ma venne anche la seconda visita ispettiva), a settembre feci l’ordinazione e me ne andai via, ritrasferito a Lonate Pozzolo. Quel nuovo dispositivo, tecnicamente perfetto, del costo di 79 milioni di lire durò fin quando non fu fatto l’allacciamento alle fogne comunali. Il direttore “pro-tempore” era il dr. Michele Rizzo.
La “Bellaria” era invece rifiorita, il parco delle macchine agricole era stato rinnovato, con primo acquisto di numerose nuove macchine con funzioni nuove, la produzione agricola e bovina era stata rinnovata.
Mi accade spesso, da quando sono in pensione, di sognare il carcere, a volte sotto forma di incubo. È stato quel mestiere 40anni della mia vita, sogno anche la Bellaria, ma nel sogno non è più il carcere della speranza per tanti derelitti, che vi venivano a morire, il carcere della vita all’aria aperta (del quale ho un ricordo molto nostalgico) è un carcere sognato con angoscia perché in via di demolizione, come poi è accaduto (fu soppresso, assieme ad altri, nel 1989).
Lo stesso tormento, la stessa angoscia che si ripeteva, per la seconda volta ero caduto in depressione, una depressione ben più grave della precedente.
Iniziai ad avere le prime pulsioni suicide.
Ciò accadeva sia per effetto della sindrome bipolare sia per effetto delle continue e obbiettive vessazioni che subivo dal 1981.
Neanche l’ambiente “bucolico” della ”Bellaria” aveva un qualche effetto. Il depresso è chiuso in un bozzolo mentale impenetrabile, la sofferenza psichica è insopportabile, il soggetto è nudo verso il mondo, privo di difese, solo chi conosce la malattia o chi l’ha provata gli può essere di aiuto.
Avendola provata anche successivamente, ho potuto salvare numerose persone, detenuti e non, dalle stesse pulsioni.
Proprio ad Alessandria fu assegnato un giovane ragioniere, di prima nomina, che non poteva capitare in ambiente peggiore. Quando mi resi conto che era non solo a rischio ma in serio pericolo, chiamai i suoi genitori, li feci venire ad Alessandria, convinsi il giovanotto ad andarsene con i suoi genitori (era figlio unico !), si dimise e tornò il ragazzo solare che era prima di entrare nella tetraggine di un carcere come quello di Alessandria.
L’estate successiva vennero a trovarmi (mi trovavo in vacanza a Eboli) ed ebbi la conferma che lo avevamo preso per i capelli, un attimo prima dell’irreparabile.
A me purtroppo non accadde.





(al centro il sottoscritto ed il Maresciallo Comandante Salvatore Lentinu)


(continua)

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