16/12/2008
MAURIZIO ASSALTO
INVIATO A ABU QUIR (EGITTO)
MAURIZIO ASSALTO
INVIATO A ABU QUIR (EGITTO)
Un esercito incontenibile che in poche settimane arriva e sbaraglia il campo. Una piccola città all’avanguardia che in qualche mese sorge dal nulla, dove prima c’erano solo tombe e cani randagi. La modernità occidentale contro l’Oriente, lo strapotere tecnologico che spazza via un universo immobile da millenni. Non stiamo parlando della macchina militare-organizzativa di un terreo presidente che nel volgere di un lustro sarà preso a scarpe in faccia; bensì di quella dispiegata da un giovane condottiero crudele e generoso che ha davanti pochi anni tumultuosi, ma in quegli anni farà in tempo a conquistare il mondo, e a scuoterlo da cima a fondo nello shaker di un progetto grandioso di fusione e rinnovamento. Non è storia d’oggi, ma dell’altro ieri. Alessandro il Macedone, il Grande, Megaléxandros: quello che, dopo la guerra, sapeva portare la pace.
Il posto è una piccola isola davanti al capo di Abu Quir, a una ventina di chilometri da Alessandria. Poco più che uno scoglio, 300 metri di lunghezza per un centinaio scarso nel punto più largo. Nel corso del tempo ha avuto diversi nomi, ma da un paio di secoli è per tutti l’isola di Nelson, per via del trionfo navale riportato dall’ammiraglio di Sua Maestà britannica contro la flotta napoleonica nell’agosto del 1798. Quando giunse Alessandro, nel 332 a. C., non aveva nessun nome perché non era neppure un’isola, ma l’estremità di un braccio di terra che si allungava nel Mediterraneo. È qui che scava da una decina d’anni Paolo Gallo, a capo della missione archeologica dell’Università di Torino.
«Questo sito - spiega - rappresenta una doppia novità. In primo luogo perché in Egitto non si erano ancora trovati insediamenti coloniali dei greci macedoni: ad Alessandria tutto è stato sommerso dalla falda freatica. E poi per lo stato eccellente dei resti, venuti fuori levando appena 50 centimetri di terra». Di qui, nelle giornate serene, si scorge a Ovest la cittadella di Qait Bey, dove secondo l’archeologo Jean-Yves Empereur sorgeva il celebre Faro, e a Est la città di Rosetta, dove fu ritrovata la stele trilingue che permise a Champollion di penetrare i segreti della scrittura geroglifica. Il clima è ancora mite, anche se nei giorni scorsi c’è stato mare arruffato e vento d’Oriente, che per chi scava è un bene perché in questi casi la marea non monta mai troppo. Nella stratigrafia dell’isola, il livello più antico, quello dove si trovano le sepolture egizie, già in condizioni normali è di poco superiore al livello del mare, con certe mummie che letteralmente cascano in acqua. «Ci sono tombe dappertutto», dice Gallo. «Alcune molte belle, con un ricco corredo».
Per molto tempo, a partire dal 700 circa a. C., questo luogo, prima disabitato, è stato utilizzato come necropoli di Herakleion, l’antico porto commerciale di Canopo, fino a quel momento la grande porta d’accesso all’Egitto (ora entrambe le città sono sommerse per l’effetto combinato della subsidenza e degli tsunami). Tutto cambia con l’avvento dei macedoni. Gente dura, organizzata, risoluta. Come i marines dei giorni nostri. I nuovi venuti sono accolti come liberatori dalla popolazione locale, insofferente del dominio persiano. Però non si fidano, preferiscono non mescolarsi. Seguendo uno schema consolidato fin dalle più antiche colonie elleniche dell’VIII secolo, da Cirene a Pithecusa, scelgono un sito strategicamente cruciale, dal quale controllare tutti i traffici in entrata e in uscita dal porto.
«Sull’isola abbiamo trovato i resti di un muraglione lungo 30 metri e largo 4, con blocchi decorati a bugnato», racconta Gallo. «In un primo momento pensavamo a un insediamento militare, anche per la presenza di palle da catapulta in alcuni edifici nei pressi. Invece non c’erano soltanto soldati. Questa gente voleva restare». E allo scopo non risparmiava i mezzi. Per prima cosa, i greci ripuliscono la necropoli dalle migliaia di cani randagi che la infestano: «Li abbiamo trovati a un metro e mezzo di profondità, sepolti tutti interi». Poi aprono alcune grosse cave di pietra per ricavarne materiale da costruzione: «Sono ben visibili i tagli nell’arenaria, che in molti casi distruggono le tombe». Con i detriti di risulta passano a terrazzare tutta l’isola, per portare il terreno a uno stesso livello.
A questo punto i coloni dispongono di una superficie pulita, pronta per edificarvi le abitazioni: «Belle case di tipo greco, come è difficile trovare anche nella madrepatria. Quasi tutte intonacate». Ma è un altro l’elemento decisivo. Mentre gli egiziani, abituati troppo bene (o troppo male) dal Nilo, non sono capaci di gestire l’acqua se non attraverso canali di derivazione, i greci, da sempre vissuti in penuria idrica, sanno come rendere vivibili le terre più aride. Dispongono del know how per utilizzare l’acqua piovana.
Nella zona di Alessandria le precipitazioni sono abbastanza intense in inverno e primavera. Di conseguenza, tutto viene organizzato in funzione della raccolta e della conservazione delle preziose gocce. Ogni abitazione è dotata di una piccola cisterna - nella corte centrale, vicino al focolare - in cui confluisce l’acqua dai tetti a spiovente, attraverso la grondaia che la convoglia in una vaschetta e quindi un tubo modulare di ceramica. Acqua in casa, e bagni privati: è la grande novità, sconosciuta agli egiziani, che per lavarsi potevano solo immergersi nel Nilo. Poi c’erano le grandi cisterne pubbliche: «Ne abbiamo scovate alcune di 13 metri per 6, con una profondità ipotizzabile di 4 o 5, per una capacità di oltre mille metri cubi. Le alimenta una rete di pozzi e di cunicoli inclinati che corrono nel sottosuolo. Tutta l’isola è traforata». L’archeologo sorride: «Questi erano pazzi, hanno fatto un lavoro mastodontico». Un sistema così sapientemente costruito che le vecchie cisterne erano ancora in funzione nel 1365, oltre un millennio e mezzo dopo il definitivo abbandono del sito, al tempo della crociata alessandrina di Pierre de Lusignan, che le usava per rifornire le sue navi.
«Ovunque arrivassero, i greci non rinunciavano mai ai caratteri fondamentali della loro cultura. Volevano vivere come in patria. Un po’ come gli inglesi nelle Indie». E ovunque arrivasse, il Macedone portava lo slancio dirompente della razionalità tecnica. Rientra in questa logica la decisione di trasferire il porto da Herakleion ad Alessandria. «Quello vecchio era una struttura interna, che comunicava con il mare attraverso canali», spiega Franck Goddio, che conduce le sue perlustrazioni subacquee nella baia di Abu Quir a poche centinaia di metri dall’isola di Nelson. «Quello nuovo è tutto diverso, aperto sul mare, con grandi infrastrutture e accorgimenti per migliorare la circolazione dell’acqua e evitare si invasi. È ingegneria portuale moderna».
E fu proprio la rapida crescita di Alessandria intorno al suo porto, parallela al consolidarsi del controllo tolemaico sull’Egitto, a determinare l’abbandono dell’isola di Nelson. Ma la spiegazione non basta. Nelle case sono stati trovati tutti gli oggetti di uso quotidiano, segno di una fuga improvvisa, forse a causa di una catastrofe naturale che aveva determinato la rottura dell’istmo. Erano passati appena sessant’anni dall’insediamento. Ma il sogno universalistico del Megaléxandros era già finito da tempo.
2 commenti:
Veramente varia, esauriente ed ottima la qualità degli articoli che quotidianamente scegli per noi, frequentatori del tuo blog.
Grazie Rossana.
Posta un commento