LA STAMPA
14/12/2008
LUIGI LA SPINA
LUIGI LA SPINA
Le notizie sono due e il campanello d’allarme suona per entrambi gli schieramenti politici. La prima riguarda il distacco, in termini quantitativi assolutamente straordinario, tra i cittadini e i rappresentanti in Parlamento. La sorpresa è amara soprattutto per i partiti di governo.
Una sorpresa amara se è vero che, nel Nord-Ovest del Paese, un elettore su quattro ha deciso di non andare più a votare, e questo impressionante dato è equamente distribuito tra gli elettori della maggioranza e quelli dell’opposizione. A otto mesi dal voto, infatti, non solo è comprensibile che i simpatizzanti del centrosinistra non abbiano superato la depressione post-sconfitta. Ma i travagli del gruppo più forte in quella parte politica, il Pd, sono tali che anche il più granitico ottimista non potrebbe negare di sentirsi scoraggiato. Singolare è, invece, che la delusione contagi anche una quota così ampia degli italiani che hanno votato per il centrodestra. Un fenomeno, tra l’altro, che tocca un elettorato, quello del Nord-Ovest, tradizionalmente poco mobile nei suoi orientamenti, meno emotivamente abituato ad alterare le proprie convinzioni secondo le contingenze del momento. Al contrario, per esempio, dell’atteggiamento politico, molto più «ballerino», che si manifesta, da sempre, nelle regioni meridionali.
È probabile che la crisi economica, che finora sembra incominciare a incidere sulle tasche dei cittadini soprattutto nelle aree industriali, alimenti una sfiducia generalizzata. Ma il dato del sondaggio potrebbe anche suggerire una certa insoddisfazione, un sentimento di speranze tradite, per come il governo ha risposto, finora, alle attese di coloro che l’hanno votato. Nella sensazione, insomma, che i provvedimenti per affrontare le emergenze dell’economia non siano tali da rassicurarli.
La seconda notizia, invece, costituisce per la sinistra non un campanello d’allarme, ma un suono di campane a martello, come quello che avvisava i paesani dell’imminente invasione dei nemici. Se anche nella roccaforte «rossa» di Torino e provincia, ormai, il centrodestra è quasi a un solo punto di distanza nelle percentuali di voto espresse dal sondaggio, le preoccupazioni di Veltroni e compagni dovrebbero indurli a risposte meno dilatorie, vaghe e persino sprezzanti rispetto alla cosiddetta «questione settentrionale».
Se vogliamo uscire dalle ipocrisie e dagli eufemismi, la situazione del Partito democratico, vista dal Nord, è sintetizzabile in poche righe. In questa zona del Paese, il Pd è visto come un «partito romano», con una base elettorale nel Centro Italia e con una forza clientelare e assistenziale in alcune città del Sud. Un partito dove i litigi tra i dirigenti non svelano contrasti ideali e politici, ma il desiderio di conservare e, possibilmente, aumentare il potere che ciascun capocorrente detiene. Unico motivo per non ammettere due verità dolorose, inaccettabili e contraddittorie. La prima è il fallimento dell’unione tra gli eredi dei filoni più importanti della cultura politica del secondo Novecento italiano, quello comunista e quello cristiano-democratico. La seconda è l’assoluta mancanza di alternative, almeno quelle concrete, per il centrosinistra rispetto alla via intrapresa e, quindi, la costrizione a continuare nell’esperimento, fin qui assai deludente.
Ma l’aspetto più curioso è che la dirigenza nazionale del Pd sembra aver accettato questo stato di fatto e, con una certa rassegnazione, dia per persa, ormai, la partita nel Nord e punti al voto «mobile» del Sud. Nell’ingenua speranza che, come è successo in passato, il suffragio meridionale possa costituire l’ago della bilancia per la vittoria nazionale. Insomma, che un ipotetico asse centro-meridionale riesca a sconfiggere il Settentrione, ormai passato definitivamente al nemico.
Come si possa pensare di candidarsi alla guida del Paese in opposizione alla parte più socialmente, economicamente e culturalmente evoluta, nell’Italia del Duemila, è già un azzardo, incredibile anche per il pensiero politico più spregiudicato e avventuroso. Ma che si possa immaginare di attuare il progetto senza le tradizionali, forti e maggioritarie presenze in alcune grandi città del Nord, da Torino a Genova fino a Venezia, è, poi, del tutto misterioso. Vorrebbe dire trasformare il partito che raccoglieva tradizionalmente la gran parte dei ceti più coinvolti nel processo di trasformazione industriale e, più in generale, economica, dell’Italia nel secolo scorso in un cartello di difesa conservatrice, con una maggioranza di pensionati impauriti e intellettuali arrabbiati.
Una sorpresa amara se è vero che, nel Nord-Ovest del Paese, un elettore su quattro ha deciso di non andare più a votare, e questo impressionante dato è equamente distribuito tra gli elettori della maggioranza e quelli dell’opposizione. A otto mesi dal voto, infatti, non solo è comprensibile che i simpatizzanti del centrosinistra non abbiano superato la depressione post-sconfitta. Ma i travagli del gruppo più forte in quella parte politica, il Pd, sono tali che anche il più granitico ottimista non potrebbe negare di sentirsi scoraggiato. Singolare è, invece, che la delusione contagi anche una quota così ampia degli italiani che hanno votato per il centrodestra. Un fenomeno, tra l’altro, che tocca un elettorato, quello del Nord-Ovest, tradizionalmente poco mobile nei suoi orientamenti, meno emotivamente abituato ad alterare le proprie convinzioni secondo le contingenze del momento. Al contrario, per esempio, dell’atteggiamento politico, molto più «ballerino», che si manifesta, da sempre, nelle regioni meridionali.
È probabile che la crisi economica, che finora sembra incominciare a incidere sulle tasche dei cittadini soprattutto nelle aree industriali, alimenti una sfiducia generalizzata. Ma il dato del sondaggio potrebbe anche suggerire una certa insoddisfazione, un sentimento di speranze tradite, per come il governo ha risposto, finora, alle attese di coloro che l’hanno votato. Nella sensazione, insomma, che i provvedimenti per affrontare le emergenze dell’economia non siano tali da rassicurarli.
La seconda notizia, invece, costituisce per la sinistra non un campanello d’allarme, ma un suono di campane a martello, come quello che avvisava i paesani dell’imminente invasione dei nemici. Se anche nella roccaforte «rossa» di Torino e provincia, ormai, il centrodestra è quasi a un solo punto di distanza nelle percentuali di voto espresse dal sondaggio, le preoccupazioni di Veltroni e compagni dovrebbero indurli a risposte meno dilatorie, vaghe e persino sprezzanti rispetto alla cosiddetta «questione settentrionale».
Se vogliamo uscire dalle ipocrisie e dagli eufemismi, la situazione del Partito democratico, vista dal Nord, è sintetizzabile in poche righe. In questa zona del Paese, il Pd è visto come un «partito romano», con una base elettorale nel Centro Italia e con una forza clientelare e assistenziale in alcune città del Sud. Un partito dove i litigi tra i dirigenti non svelano contrasti ideali e politici, ma il desiderio di conservare e, possibilmente, aumentare il potere che ciascun capocorrente detiene. Unico motivo per non ammettere due verità dolorose, inaccettabili e contraddittorie. La prima è il fallimento dell’unione tra gli eredi dei filoni più importanti della cultura politica del secondo Novecento italiano, quello comunista e quello cristiano-democratico. La seconda è l’assoluta mancanza di alternative, almeno quelle concrete, per il centrosinistra rispetto alla via intrapresa e, quindi, la costrizione a continuare nell’esperimento, fin qui assai deludente.
Ma l’aspetto più curioso è che la dirigenza nazionale del Pd sembra aver accettato questo stato di fatto e, con una certa rassegnazione, dia per persa, ormai, la partita nel Nord e punti al voto «mobile» del Sud. Nell’ingenua speranza che, come è successo in passato, il suffragio meridionale possa costituire l’ago della bilancia per la vittoria nazionale. Insomma, che un ipotetico asse centro-meridionale riesca a sconfiggere il Settentrione, ormai passato definitivamente al nemico.
Come si possa pensare di candidarsi alla guida del Paese in opposizione alla parte più socialmente, economicamente e culturalmente evoluta, nell’Italia del Duemila, è già un azzardo, incredibile anche per il pensiero politico più spregiudicato e avventuroso. Ma che si possa immaginare di attuare il progetto senza le tradizionali, forti e maggioritarie presenze in alcune grandi città del Nord, da Torino a Genova fino a Venezia, è, poi, del tutto misterioso. Vorrebbe dire trasformare il partito che raccoglieva tradizionalmente la gran parte dei ceti più coinvolti nel processo di trasformazione industriale e, più in generale, economica, dell’Italia nel secolo scorso in un cartello di difesa conservatrice, con una maggioranza di pensionati impauriti e intellettuali arrabbiati.
1 commento:
"Vorrebbe dire trasformare il partito che raccoglieva tradizionalmente la gran parte dei ceti più coinvolti nel processo di trasformazione industriale e, più in generale, economica, dell’Italia nel secolo scorso in un cartello di difesa conservatrice, con una maggioranza di pensionati impauriti e intellettuali arrabbiati.": conclusione del tutto condivisibile e che prefigura anni terribili, e io sono già troppo vecchio !
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