LA STAMPA
14/12/2008
PIETRO GARIBALDI
Gli interventi legislativi sul mercato del lavoro devono evitare discriminazioni basate sulle differenze di sesso. Nell’attuale sistema pensionistico l'età pensionabile si raggiunge per gli uomini circa cinque anni dopo le donne. L'obiettivo di ridurre queste disuguaglianze è condivisibile e si deve pertanto avere il coraggio di correggere queste differenze. Un intervento di questo tipo non può e non deve invece essere giustificato dalla necessità di fare cassa, ma deve essere inserito in un più ampio progetto di riforma.
I difensori di un’età pensionabile inferiore per le donne ricordano che queste hanno quasi sempre una vita lavorativa discontinua, interrotta da lunghi periodi di maternità. Dunque è necessario compensare le donne. È un ragionamento sbagliato. Le interruzioni legate alla necessità di crescere i figli devono essere compensate con programmi di protezione. Gli interventi legislativi non devono avere nulla a che fare con una diversa età pensionabile. In Italia il sostegno alla maternità, sommando quella volontaria e quella obbligatoria, è quantitativamente adeguato. Il vero problema è un altro: i periodi di maternità sono goduti quasi sempre dalle madri e quasi mai dai padri. Una coppia moderna dovrebbe dividersi i periodi di assenza. Bisognerebbe uguagliare l’età pensionabile e incentivare gli uomini a prendere la paternità, non regalare alle donne 5 anni di pensione in più. La proposta di Brunetta dovrebbe essere accompagnata da un incentivo fiscale alla paternità, come da tempo suggerito da Boeri e Galasso.
A favore dell’adeguamento dell’età vi è poi un fattore demografico. Le donne hanno una speranza di vita superiore: a parità di età pensionabile una donna godrà della pensione per più anni. Se dovessimo prendere seriamente questa differenza, sarebbe paradossalmente necessaria un’età pensionabile superiore per le donne. L’ostilità dei sindacati alla proposta Brunetta è esagerata. Sappiamo che quasi metà degli iscritti al sindacato sono pensionati, e che i sindacati difendono i loro iscritti. Sostengono che ogni cambiamento dell’età deve avvenire sulla base d’incentivi, non imposto per legge. Insomma, si dovrebbero offrire benefici alle donne che rimangono al lavoro oltre l’età pensionabile attuale. Gli incentivi sono già stati sperimentati dal governo di centrodestra a inizio decennio. Abbiamo imparato che rischiano spesso di trasformarsi in un regalo a chi avrebbe comunque continuato a lavorare. La tendenza all’uguaglianza tra uomini e donne è tra l’altro un fenomeno europeo. In Germania è già avvenuta, in Francia Sarkozy l’ha annunciata. È anche vero che quando la transizione verso il sistema a capitalizzazione sarà completata, ciascuno andrà in pensione quando vorrà. Ma la transizione durerà più di 15 anni.
L’innalzamento dell’età pensionabile dovrebbe comunque essere graduale. L’uscita dal lavoro è una decisione molto delicata, e i cambiamenti richiedono un il giusto tempo di reazione. Un aumento di un anno nei prossimi cinque sarebbe già uno scalino ripido. Nello stesso tempo, si dovrebbe però introdurre l’incentivo alla paternità. Sarebbe un segnale credibile di voler davvero ridurre le disuguaglianze.
pietro.garibaldi@carloalberto.org
I difensori di un’età pensionabile inferiore per le donne ricordano che queste hanno quasi sempre una vita lavorativa discontinua, interrotta da lunghi periodi di maternità. Dunque è necessario compensare le donne. È un ragionamento sbagliato. Le interruzioni legate alla necessità di crescere i figli devono essere compensate con programmi di protezione. Gli interventi legislativi non devono avere nulla a che fare con una diversa età pensionabile. In Italia il sostegno alla maternità, sommando quella volontaria e quella obbligatoria, è quantitativamente adeguato. Il vero problema è un altro: i periodi di maternità sono goduti quasi sempre dalle madri e quasi mai dai padri. Una coppia moderna dovrebbe dividersi i periodi di assenza. Bisognerebbe uguagliare l’età pensionabile e incentivare gli uomini a prendere la paternità, non regalare alle donne 5 anni di pensione in più. La proposta di Brunetta dovrebbe essere accompagnata da un incentivo fiscale alla paternità, come da tempo suggerito da Boeri e Galasso.
A favore dell’adeguamento dell’età vi è poi un fattore demografico. Le donne hanno una speranza di vita superiore: a parità di età pensionabile una donna godrà della pensione per più anni. Se dovessimo prendere seriamente questa differenza, sarebbe paradossalmente necessaria un’età pensionabile superiore per le donne. L’ostilità dei sindacati alla proposta Brunetta è esagerata. Sappiamo che quasi metà degli iscritti al sindacato sono pensionati, e che i sindacati difendono i loro iscritti. Sostengono che ogni cambiamento dell’età deve avvenire sulla base d’incentivi, non imposto per legge. Insomma, si dovrebbero offrire benefici alle donne che rimangono al lavoro oltre l’età pensionabile attuale. Gli incentivi sono già stati sperimentati dal governo di centrodestra a inizio decennio. Abbiamo imparato che rischiano spesso di trasformarsi in un regalo a chi avrebbe comunque continuato a lavorare. La tendenza all’uguaglianza tra uomini e donne è tra l’altro un fenomeno europeo. In Germania è già avvenuta, in Francia Sarkozy l’ha annunciata. È anche vero che quando la transizione verso il sistema a capitalizzazione sarà completata, ciascuno andrà in pensione quando vorrà. Ma la transizione durerà più di 15 anni.
L’innalzamento dell’età pensionabile dovrebbe comunque essere graduale. L’uscita dal lavoro è una decisione molto delicata, e i cambiamenti richiedono un il giusto tempo di reazione. Un aumento di un anno nei prossimi cinque sarebbe già uno scalino ripido. Nello stesso tempo, si dovrebbe però introdurre l’incentivo alla paternità. Sarebbe un segnale credibile di voler davvero ridurre le disuguaglianze.
pietro.garibaldi@carloalberto.org
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