MASSIMO RIVA
Con un comunicato grondante soddisfazione e compiacimento Palazzo Chigi ha annunciato che la Libia si accinge a diventare grande azionista dell'Eni: dapprima con una quota del 5 per cento, che potrà poi salire fino al 10. L'importanza dell'operazione è evidente perché essa potrà consolidare i rapporti con un partner energetico per noi fondamentale. Da quel paese l'Italia importa - fra petrolio e gas - circa il 20 per cento del suo fabbisogno: in attesa che fra una decina d'anni arrivino i primi chilowattora delle centrali nucleari per ora soltanto vagheggiate dal ministro Scajola, è un bene cercare intanto di stabilizzare i rifornimenti di prodotti tradizionali quali gli idrocarburi.
La Borsa, com'era prevedibile, ha accolto la notizia facendo schizzare al rialzo la quotazione del titolo Eni. Ciò fa sorgere, tuttavia, un primo dubbio su modalità e tempistica dell'affare. Possibile che i libici siano stati così sprovveduti da aver atteso il benvenuto di Palazzo Chigi per comprare azioni a prezzi che la pubblicità dell'operazione sta rendendo sempre più alti? Banali considerazioni di convenienza economica inducono a ritenere che l'annuncio del governo italiano sia arrivato a cose fatte, ovvero che il nulla osta sia stato dato già da settimane. Un chiarimento al riguardo non guasterebbe.
Quel che comunque Palazzo Chigi non spiega è come questa operazione si collochi rispetto sia alla linea sbandierata dal premier Berlusconi in materia, sia ad alcune recenti scelte legislative del governo in tema di scalate azionarie. Sul primo versante, infatti, sono mesi che il Cavaliere lancia allarmi sul pericolo che capitali esteri - soprattutto provenienti dai cosiddetti fondi sovrani (come quello libico in Eni) - approfittino del tracollo dei listini per fare man bassa di imprese nazionali. In conseguenza, sul secondo versante, nell'ultimo decreto il ministro Tremonti ha inserito norme che svuotano la competitività borsistica delle società quotate, mettendo a disposizione dei loro amministratori più robusti strumenti per neutralizzare eventuali offerte pubbliche d'acquisto dirette a scalzarli dalle loro poltrone.
Si tratta di una direzione di marcia seriamente nociva per la vitalità della Borsa perché - in un mercato che patti di sindacato e scatole cinesi rendono già fra i più ingessati del mondo - privilegia la difesa delle posizioni di potere dominanti a pesante scapito degli azionisti di minoranza e della generalità dei risparmiatori. Oltre tutto, in un momento nel quale la caduta delle quotazioni richiederebbe semmai di spalancare le porte all'arrivo di denaro fresco in grado di rianimare un listino boccheggiante.
Ed eccoci al punto cruciale. Aprire le braccia alla Libia e al tempo stesso alzare le barricate contro l'arrivo in Borsa di nuovi capitali, interni o esteri, è una contraddizione palese, la quale induce a ritenere che a Palazzo Chigi in un modo si predichi e in tutt'altro si razzoli. Ovvero a pensare che Silvio Berlusconi intenda procedere caso per caso, nascondendo dietro la foglia di fico del pragmatismo il vezzo più temibile da parte di chi governa: l'arbitrarietà, sciolta da ogni regola.
(12 dicembre 2008)
La Borsa, com'era prevedibile, ha accolto la notizia facendo schizzare al rialzo la quotazione del titolo Eni. Ciò fa sorgere, tuttavia, un primo dubbio su modalità e tempistica dell'affare. Possibile che i libici siano stati così sprovveduti da aver atteso il benvenuto di Palazzo Chigi per comprare azioni a prezzi che la pubblicità dell'operazione sta rendendo sempre più alti? Banali considerazioni di convenienza economica inducono a ritenere che l'annuncio del governo italiano sia arrivato a cose fatte, ovvero che il nulla osta sia stato dato già da settimane. Un chiarimento al riguardo non guasterebbe.
Quel che comunque Palazzo Chigi non spiega è come questa operazione si collochi rispetto sia alla linea sbandierata dal premier Berlusconi in materia, sia ad alcune recenti scelte legislative del governo in tema di scalate azionarie. Sul primo versante, infatti, sono mesi che il Cavaliere lancia allarmi sul pericolo che capitali esteri - soprattutto provenienti dai cosiddetti fondi sovrani (come quello libico in Eni) - approfittino del tracollo dei listini per fare man bassa di imprese nazionali. In conseguenza, sul secondo versante, nell'ultimo decreto il ministro Tremonti ha inserito norme che svuotano la competitività borsistica delle società quotate, mettendo a disposizione dei loro amministratori più robusti strumenti per neutralizzare eventuali offerte pubbliche d'acquisto dirette a scalzarli dalle loro poltrone.
Si tratta di una direzione di marcia seriamente nociva per la vitalità della Borsa perché - in un mercato che patti di sindacato e scatole cinesi rendono già fra i più ingessati del mondo - privilegia la difesa delle posizioni di potere dominanti a pesante scapito degli azionisti di minoranza e della generalità dei risparmiatori. Oltre tutto, in un momento nel quale la caduta delle quotazioni richiederebbe semmai di spalancare le porte all'arrivo di denaro fresco in grado di rianimare un listino boccheggiante.
Ed eccoci al punto cruciale. Aprire le braccia alla Libia e al tempo stesso alzare le barricate contro l'arrivo in Borsa di nuovi capitali, interni o esteri, è una contraddizione palese, la quale induce a ritenere che a Palazzo Chigi in un modo si predichi e in tutt'altro si razzoli. Ovvero a pensare che Silvio Berlusconi intenda procedere caso per caso, nascondendo dietro la foglia di fico del pragmatismo il vezzo più temibile da parte di chi governa: l'arbitrarietà, sciolta da ogni regola.
(12 dicembre 2008)
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