martedì 16 dicembre 2008

La spina nel fianco

LA STAMPA
16/12/2008
FEDERICO GEREMICCA

In definitiva, punto percentuale in più, punto percentuale in meno, è andata come doveva andare. Ed è andata come doveva andare sotto ogni punto di vista. Il voto abruzzese, infatti, non ha riservato sorprese: nemmeno sul fronte, certamente assai allarmante, dell’astensionismo (che sarebbe ora di cominciare a chiamare «voto d’astensione», per la chiara indicazione politica che ormai contiene). Nella regione ha di fatto votato un cittadino su due: e, francamente, ogni sorpresa in proposito è da considerare ipocrita, se non menzognera.

Nel giro di un solo autunno, infatti, gli elettori abruzzesi hanno visto finire in manette la giunta che li governava, hanno assistito alla deprimente rottura tra il governatore Del Turco e il partito che lo aveva espresso (il Pd), per arrivare all’arresto, appena chiuse le urne, del sindaco di Pescara.

Fino a giungere allo spettacolo non edificante del candidato presidente del centrodestra che sollecita curriculum e promette lavoro in cambio di un voto a suo favore. Che in tale scenario - e nonostante la neve e le intemperie - un abruzzese su due si sia scomodato per andare a votare, è quasi un miracolo: altro che «sorpresa per l’alto livello di astensione».

A grandi linee, e a spoglio delle schede non ancora ultimato, quel che è accaduto può esser sintetizzato più o meno così: Gianni Chiodi, candidato del centrodestra, è il nuovo presidente della Regione, ma il vero vincitore si chiama Antonio Di Pietro, che ha raddoppiato i propri voti rispetto alle politiche di otto mesi fa, moltiplicandoli addirittura per cinque o per sei in confronto alle elezioni regionali di tre anni fa. Il partito democratico perde un terzo dei voti che aveva (sia rispetto alle politiche di aprile che alla consultazione del 2005), il Popolo delle libertà non aumenta i propri consensi e anzi flette rispetto alle elezioni di questa primavera, mentre il resto (civiche, autonomisti e quant’altro) è magra soddisfazione o lieve depressione sul filo del decimale o giù di lì.

Le primissime reazioni, naturalmente, si sono concentrate sui dati più vistosi del voto: l’astensionismo e la crescita del partito di Antonio Di Pietro (facce, in fondo, dell’identica medaglia). Lasciando perdere, per il momento, gli scontatissimi commenti sulla scarsa partecipazione al voto («allarmante», «inquietante», «fenomeno crescente»...) conviene forse soffermarsi sulle analisi avviate in casa del Pd intorno al risultato dell’Italia dei Valori e dello stesso Partito democratico. L’una sale, di molto; l’altro scende, di molto. La circostanza ha naturalmente indotto a uscire allo scoperto con la massima nettezza quanti - nel Pd - giudicano da tempo l’alleanza con Di Pietro una scelta sbagliata. E se Nicola Latorre, dirigente vicino a D’Alema, annota come l’ex pm «stia erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari», Europa - giornale un tempo vicino alla Margherita - è ancor più esplicito: «Via da Di Pietro, di corsa: è il momento di rompere questa alleanza fasulla e suicida».

Non è tema di poco conto, nella misura in cui riguarda la strategia futura del Pd e la politica delle alleanze del partito guidato da Veltroni. Per mesi nel quartier generale dei democratici si è fatto finta di non vedere (o non se ne sono tratte tutte le conseguenze) quanto l’iniziativa di Di Pietro costituisse una spina nel fianco proprio per il Pd, prima ancora che per Silvio Berlusconi: ora se ne ha una prova, una dimostrazione perfino matematica. E l’interrogativo cui deve rispondere oggi il gruppo dirigente del Pd è banale, nella sua semplicità: è ancora possibile essere alleati di una forza politica che non perde occasione (dalla questione morale alla riforma della giustizia) per attaccare e polemizzare col Pd? E ancora: conviene far fronte comune con un leader (Di Pietro, appunto) che Silvio Berlusconi utilizza per delegittimare l’intera opposizione e motivare il suo «no» al dialogo, qualunque sia il tema in discussione? Le risposte sembrerebbero ovvie: ma evidentemente non lo sono, se le cose sono ancora al punto in cui sono. Sull’altare dell’alleanza con Di Pietro, il Pd ha già pagato un prezzo alto nella vicenda che ha riguardato e riguarda la Commissione di vigilanza Rai, per dirne solo una. Oggi paga un altro conto assai salato in Abruzzo. E davvero non si capisce, allora, come mai la «vocazione maggioritaria» proclamata nelle elezioni dell’aprile scorso sia servita al Pd per rompere con tutti (dai Verdi fino a Rifondazione) ma non - nonostante tutto - col «partito personale» dell’ex leader di Mani Pulite.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

E' evidente che Di Pietro sta sui coglioni anche a Federico Geremicca, io me ne compiaccio.