LA STAMPA
15/12/2008
LUCA RICOLFI
LUCA RICOLFI
Zig-zag. Stop and go. Tatticismo. Navigazione a vista. Politica degli annunci. Gioco delle tre carte. Incursioni e marce indietro. Potete usare le parole che preferite, però l’impressione resta quella: il governo appare in preda a continui «strattonamenti», che trasmettono all’elettorato una sensazione di precarietà e sostanziale debolezza. È il caso, per citare esempi recenti, delle più o meno effettive marce indietro su università, scuola, sconti fiscali per le ristrutturazioni «ecologiche».
Ma è anche il caso dei ripetuti rinvii della riforma della giustizia, del disegno di legge delega sul federalismo fiscale, per non parlare della riforma organica del Welfare, in particolare in materia di ammortizzatori sociali.
Di fronte a questo spettacolo, l’interpretazione che prevale nei commenti è che il centro-destra si stia rendendo conto che, senza concedere qualcosa a opposizione e sindacati, sia difficile mantenere il consenso dell’elettorato. Di qui il passaggio da una stagione di riforme dall’alto, imposte con blitz legislativi, a una stagione di riforme balbettate, abbozzate o «facoltative», come le ha sarcasticamente bollate Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. L’interpretazione tatticista, per cui il governo agirebbe come agisce essenzialmente per non far salire troppo la tensione nel Paese, è più che ragionevole (nessun governo può prescindere completamente dal consenso) ma non mi convince fino in fondo. La mia impressione è che l’erraticità del comportamento del governo abbia radici al tempo stesso più banali e più profonde.
Radici banali, innanzitutto. Sarò forse un ingenuo, ma a me certi «errori» legislativi paiono semplicemente frutto di fretta, superficialità e impreparazione tecnica. Voglio dire che certe marce indietro non mi paiono vere concessioni all’opposizione, bensì semplici tributi al buon senso, ossia correzioni di errori che si sarebbero tranquillamente evitati se i ministri studiassero i problemi prima di decidere, e disponessero di staff tecnici più competenti.
Faccio solo tre esempi di provvedimenti chiaramente mal concepiti, ma successivamente corretti: il blocco uniforme del turnover nell’università, che puniva anche gli atenei «virtuosi»; la riduzione degli incentivi fiscali alle ristrutturazioni «ecologiche», che aveva persino aspetti aberranti, come la retroattività e il silenzio-diniego; le riforme scolastiche, prive di garanzie esplicite alle famiglie (tempo pieno) e di una dettagliata valutazione tecnica dei tempi e dei modi di attuazione (con conseguente rivolta degli enti locali).
A questi tre esempi di fragilità tecnica se ne dovrebbe forse aggiungere un quarto, di enorme importanza: a tutt’oggi sembra ancora in alto mare la costruzione di quella «base di dati condivisa» che giustamente il ministro Tremonti vede come precondizione di avvio del federalismo. In breve, a me sembra che di fatto il governo stia facendo un po’ come quei produttori di software che, dovendo rispettare una certa data per mettere sul mercato nuovi prodotti, o nuove versioni dei prodotti precedenti, usano gli utenti come cavie, contando di riparare i «bachi» in un secondo momento, quando le cavie avranno segnalato tutti i malfunzionamenti dei nuovi sistemi. Fuor di metafora: non sarebbe meglio che i governi (il discorso vale anche per il passato) studiassero attentamente l’impatto delle norme prima di vararle, anziché ricorrere sistematicamente a emendamenti del governo stesso, più o meno suggeriti dall’opposizione e dalla piazza?
Ma non c’è solo questo, forse. L’erraticità dell’azione di governo ha anche radici più profonde. Anche qui potrei sbagliarmi, ma la mia sensazione è che il governo di centro-destra non abbia né la convinzione né le capacità - la cultura, verrebbe da dire - che sarebbero necessarie per difendere le proprie scelte, o meglio ancora la propria visione del futuro del Paese. Se tanto spesso il governo è indotto a rivedere le proprie decisioni, comunicando così una sensazione di debolezza, non è solo perché si trova costretto a correggere ex post errori commessi per fretta o superficialità, ma perché questo governo, o forse sarebbe meglio dire questa destra, riesce ad avere torto anche quando ha sostanzialmente ragione. Certe marce indietro sono dovute al fatto che, arrivato al dunque, il governo si rende conto che l’opinione pubblica non capirebbe, e non capirebbe perché non è preparata a determinate scelte. Ma perché l’opinione pubblica non è preparata?
È qui che le spiegazioni del governo diventano carenti. Berlusconi dice che sono stati fatti errori di comunicazione. La Gelmini dice che è colpa dell’informazione, che non fa il suo mestiere. Hanno entrambi ragione, come non ho mancato di rilevare più volte io stesso quando ho denunciato il mare di falsità che sindacati, opposizione e stampa partigiana hanno diffuso in questi mesi sulla riforma della scuola. Però accusare gli altri non basta: i timori delle famiglie sul tempo pieno, o sul destino dei ragazzi nel pomeriggio, non possono essere dissolti solo con comunicati, interviste, conferenze stampa, se poi quelle assicurazioni non hanno un riscontro preciso e inequivocabile nelle norme di legge. Altrimenti succede quel che è successo nei giorni scorsi in materia di riforme scolastiche: il governo mantiene l’80% di quel che aveva deciso (compreso maestro unico e abolizione del «modulo», ossia dei 2 insegnanti per 3 classi), ma quel che passa nell’opinione pubblica è che l’opposizione avrebbe costretto il governo alla ritirata, quando la realtà è molto più prosaica: la riforma Gelmini non è mai stata brutta come l’opposizione amava dipingerla, e già prima della presunta retromarcia era evidente (almeno a chi avesse avuto la pazienza di fare i conti) che i risparmi di spesa consentiti dall’eliminazione delle compresenze erano sufficienti ad aumentare il numero di classi a tempo pieno.
Insomma, a me pare che il governo stenti a capire quanto importante sia oggi preparare l’opinione pubblica alle riforme, ben prima e al di là della doverosa informazione sulle singole leggi e riforme. Non solo perché la cultura riformista è minoranza nel Paese, ma perché in un periodo di crisi la gente ha più che mai bisogno di ragionevoli certezze, di sapere dove il timoniere intende portare la nave. Visione, la chiamerebbe forse Tremonti; egemonia, l’avrebbe chiamata Gramsci. Se non c’è tutto questo, è inutile invitare la gente a sperare, ad avere fiducia.
Ma è anche il caso dei ripetuti rinvii della riforma della giustizia, del disegno di legge delega sul federalismo fiscale, per non parlare della riforma organica del Welfare, in particolare in materia di ammortizzatori sociali.
Di fronte a questo spettacolo, l’interpretazione che prevale nei commenti è che il centro-destra si stia rendendo conto che, senza concedere qualcosa a opposizione e sindacati, sia difficile mantenere il consenso dell’elettorato. Di qui il passaggio da una stagione di riforme dall’alto, imposte con blitz legislativi, a una stagione di riforme balbettate, abbozzate o «facoltative», come le ha sarcasticamente bollate Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. L’interpretazione tatticista, per cui il governo agirebbe come agisce essenzialmente per non far salire troppo la tensione nel Paese, è più che ragionevole (nessun governo può prescindere completamente dal consenso) ma non mi convince fino in fondo. La mia impressione è che l’erraticità del comportamento del governo abbia radici al tempo stesso più banali e più profonde.
Radici banali, innanzitutto. Sarò forse un ingenuo, ma a me certi «errori» legislativi paiono semplicemente frutto di fretta, superficialità e impreparazione tecnica. Voglio dire che certe marce indietro non mi paiono vere concessioni all’opposizione, bensì semplici tributi al buon senso, ossia correzioni di errori che si sarebbero tranquillamente evitati se i ministri studiassero i problemi prima di decidere, e disponessero di staff tecnici più competenti.
Faccio solo tre esempi di provvedimenti chiaramente mal concepiti, ma successivamente corretti: il blocco uniforme del turnover nell’università, che puniva anche gli atenei «virtuosi»; la riduzione degli incentivi fiscali alle ristrutturazioni «ecologiche», che aveva persino aspetti aberranti, come la retroattività e il silenzio-diniego; le riforme scolastiche, prive di garanzie esplicite alle famiglie (tempo pieno) e di una dettagliata valutazione tecnica dei tempi e dei modi di attuazione (con conseguente rivolta degli enti locali).
A questi tre esempi di fragilità tecnica se ne dovrebbe forse aggiungere un quarto, di enorme importanza: a tutt’oggi sembra ancora in alto mare la costruzione di quella «base di dati condivisa» che giustamente il ministro Tremonti vede come precondizione di avvio del federalismo. In breve, a me sembra che di fatto il governo stia facendo un po’ come quei produttori di software che, dovendo rispettare una certa data per mettere sul mercato nuovi prodotti, o nuove versioni dei prodotti precedenti, usano gli utenti come cavie, contando di riparare i «bachi» in un secondo momento, quando le cavie avranno segnalato tutti i malfunzionamenti dei nuovi sistemi. Fuor di metafora: non sarebbe meglio che i governi (il discorso vale anche per il passato) studiassero attentamente l’impatto delle norme prima di vararle, anziché ricorrere sistematicamente a emendamenti del governo stesso, più o meno suggeriti dall’opposizione e dalla piazza?
Ma non c’è solo questo, forse. L’erraticità dell’azione di governo ha anche radici più profonde. Anche qui potrei sbagliarmi, ma la mia sensazione è che il governo di centro-destra non abbia né la convinzione né le capacità - la cultura, verrebbe da dire - che sarebbero necessarie per difendere le proprie scelte, o meglio ancora la propria visione del futuro del Paese. Se tanto spesso il governo è indotto a rivedere le proprie decisioni, comunicando così una sensazione di debolezza, non è solo perché si trova costretto a correggere ex post errori commessi per fretta o superficialità, ma perché questo governo, o forse sarebbe meglio dire questa destra, riesce ad avere torto anche quando ha sostanzialmente ragione. Certe marce indietro sono dovute al fatto che, arrivato al dunque, il governo si rende conto che l’opinione pubblica non capirebbe, e non capirebbe perché non è preparata a determinate scelte. Ma perché l’opinione pubblica non è preparata?
È qui che le spiegazioni del governo diventano carenti. Berlusconi dice che sono stati fatti errori di comunicazione. La Gelmini dice che è colpa dell’informazione, che non fa il suo mestiere. Hanno entrambi ragione, come non ho mancato di rilevare più volte io stesso quando ho denunciato il mare di falsità che sindacati, opposizione e stampa partigiana hanno diffuso in questi mesi sulla riforma della scuola. Però accusare gli altri non basta: i timori delle famiglie sul tempo pieno, o sul destino dei ragazzi nel pomeriggio, non possono essere dissolti solo con comunicati, interviste, conferenze stampa, se poi quelle assicurazioni non hanno un riscontro preciso e inequivocabile nelle norme di legge. Altrimenti succede quel che è successo nei giorni scorsi in materia di riforme scolastiche: il governo mantiene l’80% di quel che aveva deciso (compreso maestro unico e abolizione del «modulo», ossia dei 2 insegnanti per 3 classi), ma quel che passa nell’opinione pubblica è che l’opposizione avrebbe costretto il governo alla ritirata, quando la realtà è molto più prosaica: la riforma Gelmini non è mai stata brutta come l’opposizione amava dipingerla, e già prima della presunta retromarcia era evidente (almeno a chi avesse avuto la pazienza di fare i conti) che i risparmi di spesa consentiti dall’eliminazione delle compresenze erano sufficienti ad aumentare il numero di classi a tempo pieno.
Insomma, a me pare che il governo stenti a capire quanto importante sia oggi preparare l’opinione pubblica alle riforme, ben prima e al di là della doverosa informazione sulle singole leggi e riforme. Non solo perché la cultura riformista è minoranza nel Paese, ma perché in un periodo di crisi la gente ha più che mai bisogno di ragionevoli certezze, di sapere dove il timoniere intende portare la nave. Visione, la chiamerebbe forse Tremonti; egemonia, l’avrebbe chiamata Gramsci. Se non c’è tutto questo, è inutile invitare la gente a sperare, ad avere fiducia.
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