LA STAMPA
15/12/2008
VITTORIO EMANUELE PARSI
VITTORIO EMANUELE PARSI
Un ribaltamento copernicano della politica di sicurezza americana in tutta l’Asia: smettere di pensare alla Cina come al prossimo rivale globale e iniziare a considerarla un partner essenziale per la sicurezza in Asia.
Si tratta di un clamoroso avvicendamento nelle preoccupazioni strategiche che hanno dominato le riflessioni delle teste d’uovo del Dipartimento di Stato, del Pentagono e di molti dei più prestigiosi think tanks indipendenti di New York e Washington. E però tutto questo sembra essere la condizione necessaria affinché gli Stati Uniti e gli alleati occidentali possano chiudere vittoriosamente la «war on terror» in Afghanistan e gettare le basi per un possibile ordine internazionale sufficientemente stabile.
Nei giorni della sua visita romana, il generale Petraeus ha ribadito ciò che il presidente eletto Barack Obama non si è mai stancato di ripetere in campagna elettorale. Per cercare di vincere in Afghanistan servono più truppe, una politica orientata a dividere il fronte talebano e un aiuto meno timido e ambiguo da parte del Pakistan. I primi due punti di questa ambiziosa strategia chiamano in causa essenzialmente gli americani e il loro rapporto con gli alleati occidentali. Senza abbandonare la mentalità della coalition of willings che ha caratterizzato anche la campagna afghana (con gli americani a fissare gli obiettivi e gli alleati a condividere cautamente gli sforzi), sarà ben difficile ottenere i risultati sperati. Occorre invece che la condivisione tra alleati parta proprio dall’elaborazione degli obiettivi. Quali sono oggi, a sette anni dall’inizio della guerra, gli scopi politici e militari che ci proponiamo? Fino a che punto e con chi siamo disposti a trattare? Chi vogliamo corrompere, chi eliminare e chi catturare? Quando potremo considerare raggiunti i principali obiettivi della guerra?
Ottenere un maggiore e migliore coinvolgimento del Pakistan è invece una questione che coinvolge innanzitutto la capacità americana di convincere i pachistani che la pacificazione del fronte afghano non farà venire meno l’attenzione che Washington continuerà a riservare a Islamabad. Benché ciò non venga esplicitamente dichiarato, una delle preoccupazioni pachistane è che, quando l’Afghanistan venisse sostanzialmente pacificato, nulla tratterrebbe Washington da stringere ulteriormente i suoi legami con l’India, politica che gli americani stanno attuando da alcuni anni in funzione di contenimento della Cina. I cinesi, dal canto loro, pur aspirando a neutralizzare le mosse americane, devono cercare di riavvicinarsi all’India senza perdere il favore dei propri tradizionali alleati pachistani.
Si tratta di un vero e proprio rompicapo strategico, dal quale è possibile uscire solo a condizione di una revisione radicale dell’approccio americano alla sicurezza dell’Asia (meridionale in primis) e del ruolo che la Cina può svolgere rispetto a tale obiettivo. Considerare la Cina un partner per la sicurezza asiatica e non un futuro possibile rivale per la leadership globale: questo è l’audace passo che Obama dovrebbe risolversi a compiere. In tale mutata ottica la relazione indopachistana, invece di essere sottoposta a ulteriore tensione dalle mosse competitive di Washington e Pechino, verrebbe sostenuta dalla loro azione cooperativa. E Islamabad si troverebbe nelle condizioni migliori per fare quella decisa scelta di campo che potrebbe consentire anche l’inizio della stabilizzazione del suo fragilissimo regime e la lotta contro i propri talebani e tutte le formazioni qaediste che vogliono ridurre il Pakistan a una enorme retrovia per le proprie azioni terroristiche in Afghanistan e in India.
Gli eventi di questi anni indicano che la «rivalità strategica» tra Washington e Pechino è solo una possibilità e non una certezza. In compenso, si va concretizzando l’altra possibilità, quella di una «partnership strategica» sinoamericana. In termini economici e finanziari l’interdipendenza tra Stati Uniti e Cina è seconda solo a quella tra Stati Uniti ed Europa. In termini di sicurezza, nessuna delle scelte fin qui compiute da Pechino sta andando nella direzione di voler ribaltare l’ordine americano in Asia, e gli accordi economico-commerciali stipulati a novembre col governo di Taiwan sono un atto dalla forte rilevanza simbolica anche nei confronti degli Stati Uniti. L’antica «via della seta» collegava la Cina all’Occidente proprio passando per il Khyber Pass e l’antica Bactriana. Non sarebbe per nulla paradossale che, oggi, la strada migliore per venir fuori da Kabul arrivasse fino a Pechino.
Nessun commento:
Posta un commento