di Massimo Franco
Il fatto che Antonio Di Pietro gioisca perché il suo partito ha quasi sestuplicato i voti ufficializza il cannibalismo in atto nel centrosinistra. È, almeno nelle sue intenzioni, l'inizio di una lunga spallata che dovrebbe avere come traguardo un riequilibrio col Pd alle europee di primavera. Nelle elezioni regionali in Abruzzo la scommessa non era tanto su chi avrebbe vinto fra i due schieramenti: il successo del centrodestra era previsto, anche per lo scandalo che a luglio aveva portato all'arresto del governatore Ottaviano Del Turco, del Pd. L'incognita riguardava i contraccolpi nel campo dei perdenti.
Il Partito democratico poco sopra al 20% e l'Idv intorno al 15 porterebbe a rispondere che la geografia dell'opposizione cambia: l'esercito di Veltroni si sta rapidamente logorando, e quello di Di Pietro ingrassando. Ma l'astensione che sfiora la metà del totale, quasi 30 punti meno delle politiche, allunga su tutto il sistema l'ombra della sconfitta: perfino sul Pdl berlusconiano che ha vinto. E rende la soddisfazione dipietrista vagamente autoconsolatoria. Dietro il trionfo del non voto non c'è soltanto un giudizio negativo sul malaffare nella regione, ma sull'insieme dei partiti.
Neppure il candidato preteso e ottenuto dall'Idv è riuscito a convincere i delusi; a mobilitarli e a portarli alle urne. La traduzione elettorale di una politica vista come una variante di «guardie e ladri» ha rivelato ancora una volta tutti i suoi limiti. Ridimensiona il centrosinistra; non gli evita un tracollo; drena una parte consistente del consenso del Pd, ma radicalizzandolo e dunque rendendolo meno spendibile. Insomma, Di Pietro canta vittoria su un panorama di macerie; e da oggi i suoi rapporti con gli alleati diventeranno, se possibile, ancora più avvelenati.
Ironizzare sui «ma anche » veltroniani ed esaltare la propria affermazione ai danni del Pd significa dichiarare la guerra dentro l'opposizione. Un simile atteggiamento dice che Di Pietro considera, o comunque vuole vedere la «sindrome abruzzese» come una tendenza non locale ma nazionale; e che ha una spietata determinazione ad approfittarne. Si candida come leader non solo dell'Idv ma anche degli spezzoni dell'estrema sinistra esclusi dal Parlamento, che hanno in odio il Pd; e come campione di un antiberlusconismo irriducibile.
Il sogno sempre meno nascosto è quello di trasformarsi in una sorta di Umberto Bossi del centrosinistra: il capo di una «Lega nazionale», pronta a succhiare voti alleati. Ma non sarebbe giusto additare l'ex pm di Mani pulite come la causa dei problemi del Pd. Semmai ne è il sintomo. Sottolinea ed esaspera l'identità indefinita della creatura veltroniana. E ripropone la domanda sui motivi veri che hanno indotto il Pd a sceglierlo come alleato.
Sono più comprensibili le ragioni per le quali Berlusconi lo ama come avversario: l'antiberlusconismo di Di Pietro infiamma i cuori di una parte dell'opposizione; e in parallelo contribuisce a farla perdere.
16 dicembre 2008
Il Partito democratico poco sopra al 20% e l'Idv intorno al 15 porterebbe a rispondere che la geografia dell'opposizione cambia: l'esercito di Veltroni si sta rapidamente logorando, e quello di Di Pietro ingrassando. Ma l'astensione che sfiora la metà del totale, quasi 30 punti meno delle politiche, allunga su tutto il sistema l'ombra della sconfitta: perfino sul Pdl berlusconiano che ha vinto. E rende la soddisfazione dipietrista vagamente autoconsolatoria. Dietro il trionfo del non voto non c'è soltanto un giudizio negativo sul malaffare nella regione, ma sull'insieme dei partiti.
Neppure il candidato preteso e ottenuto dall'Idv è riuscito a convincere i delusi; a mobilitarli e a portarli alle urne. La traduzione elettorale di una politica vista come una variante di «guardie e ladri» ha rivelato ancora una volta tutti i suoi limiti. Ridimensiona il centrosinistra; non gli evita un tracollo; drena una parte consistente del consenso del Pd, ma radicalizzandolo e dunque rendendolo meno spendibile. Insomma, Di Pietro canta vittoria su un panorama di macerie; e da oggi i suoi rapporti con gli alleati diventeranno, se possibile, ancora più avvelenati.
Ironizzare sui «ma anche » veltroniani ed esaltare la propria affermazione ai danni del Pd significa dichiarare la guerra dentro l'opposizione. Un simile atteggiamento dice che Di Pietro considera, o comunque vuole vedere la «sindrome abruzzese» come una tendenza non locale ma nazionale; e che ha una spietata determinazione ad approfittarne. Si candida come leader non solo dell'Idv ma anche degli spezzoni dell'estrema sinistra esclusi dal Parlamento, che hanno in odio il Pd; e come campione di un antiberlusconismo irriducibile.
Il sogno sempre meno nascosto è quello di trasformarsi in una sorta di Umberto Bossi del centrosinistra: il capo di una «Lega nazionale», pronta a succhiare voti alleati. Ma non sarebbe giusto additare l'ex pm di Mani pulite come la causa dei problemi del Pd. Semmai ne è il sintomo. Sottolinea ed esaspera l'identità indefinita della creatura veltroniana. E ripropone la domanda sui motivi veri che hanno indotto il Pd a sceglierlo come alleato.
Sono più comprensibili le ragioni per le quali Berlusconi lo ama come avversario: l'antiberlusconismo di Di Pietro infiamma i cuori di una parte dell'opposizione; e in parallelo contribuisce a farla perdere.
16 dicembre 2008
1 commento:
Ieri sera Massimo Giannini era a Porta Porta a fianco di Di Pietro, osservarne il comportamento e le reazioni era facile: era evidente che il raffinato giornalista ed intellettuale non sopportava il sanguigno Di Pietro, che delle raffinatezze se ne fotte e fa bene.
L'articolo di oggi dimostra che a mio giudizio la faziosità di Giannini gli offusca l'analisi politica (nella migliore delle ipotesi).
Infatti, perchè non si chiede e non chiede a quelli del PD una riflessione sulla sconfitta della coalizione del centro-sinistra e sul successo dell'IdV priva di faziosità alla ricerca di un modello vincente ?
Come si fa a non vedere che l'elettorato che si sposta dal PD all'IdV, quindi un elettorato di snistra, dà di per sè l'indicazione politica utile, e cioè che (con buona pace di Giorgio Napolitano) con il PdL e la Lega ci vuole intransigenza e rigore ?
Quando c'era il PCI ciò che impediva il suo ingresso al governo del paese era la suddivisione del mondo in due blocchi, ma di per sè il PCI era un modello di rigore e di cultura non solo politica.
Fin quando non realizzeranno che la linea vincente è tornare a quel rigore, che passare dei "pizzini" all'aversario politico è gesto moralmente, eticamente politicamente molto scorretto e da sanzionare con l'espulsione dal partito e dalla politica, ci sarà sempre un riccone di turno che potrà farla da padrone, perchè null'altro differenzierà i due schieramenti politici se non la ricchezza dell'uno e la sua capacità di 'corruzione politica', come la definisce Di Pietro.
E allora, sotto con i VAFFANCULO !
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