E così nelle mie tenebre vo fantasticando or sopra questo or sopra quello effetto di natura, né posso, come vorrei, dar qualche quiete al mio inquieto cervello». Ecco ciò che Galilei, ormai cieco, fa scrivere in una lettera ad un amico. Siamo nel gennaio del 1638, e Galilei, dopo la condanna inflittagli dalla chiesa romana, vive agli arresti domiciliari in una casetta ad Arcetri, nei pressi di Firenze. E non riesce a dar quiete a quel suo «inquieto cervello» che lo ha portato alla rovina. Già: la rovina. Non gli sfuggono le ragioni di quest'ultima. Le ha incise in una nota nella sua copia personale del libro - il «Dialogo» - che ha fatto scattare i meccanismi dell'Inquisizione. In quella nota Galilei dice che il sapere sulla natura genera innovazioni. Dice anche che le innovazioni sono sgradite a chi, per conservare il potere, deve rigettare ogni novità: così accade che gli ignoranti, essendo potenti, si ergono a giudici e piegano gli «intelligenti».
Torniamo ora all'indietro nel tempo, e cerchiamo di meglio cogliere questo tema del timore del nuovo. Nel 1610 si stampa il «Sidereus Nuncius» e Galilei vi scrive di come il telescopio riveli che la Via Lattea non è una specie di nube biancheggiante, ma una congerie sterminata di stelle: grazie alle lenti e «con la certezza offerta dagli occhi» si risolvono «tutte le discussioni che per tanti secoli hanno inquietato i filosofi» e ci liberiamo da «dispute fatte solo di parole». Nei mesi successivi il telescopio porta ad altre scoperte e Galilei insiste sia nel privilegiare la «podestà assoluta della ragione» sia nel criticare «gl'inimici delle novità, il numero de i quali è infinito». La virtù della ragione, dunque, e la libertà del singolo studioso anche di fronte a infiniti «inimici», consentono «d'investigare, come problema massimo ed ammirando, la vera costituzione dell'universo, poi che tal costituzione è, ed è in modo solo, vero, reale ed impossibile ad esser altamente».
Un punto di vista rivoluzionario, questo, perché difende la libertà del singolo e la ricerca del vero dalle critiche di una maggioranza che rigetta ogni novità e si affida alle regole non negoziabili di una alleanza stabile tra metafisica e teologia. Il conflitto era già venuto alla luce nel 1543, quando il trattato di Copernico andava alle stampe e il suo autore, morente, non poteva impedire che al libro fosse aggiunta una breve ed anonima prefazione. In quelle poche righe, scritte in realtà da un teologo, si spiegava al lettore che le ipotesi astronomiche non erano né vere, né verosimili: lo scienziato e il filosofo, quindi, non troveranno mai «qualcosa di certo, se non gli sarà rivelato da Dio».
Ed è il sigillo divino sulla verità che Galilei infrange quando pretende che la scienza debba esplorare «la vera costituzione dell'universo». Ma il sigillo è onorato nelle chiese e nelle università, con il consenso di una cultura diffusa secondo la quale tutto ciò che vi è da sapere è già noto e nulla di nuovo può emergere - poiché la natura stessa ha già parlato con la bocca di Aristotele. Chi spezza il sigillo, allora, è isolato. Non a caso Galilei reagisce, nel «Dialogo» del 1632, quando fa dire al perdente Simplicio che la nuova scienza «tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo». Per subito rispondergli così: «La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute... ché quanto alla scienza stessa, ella non può se non avanzarsi».
Ma le ragioni della libera ragione sono subito negate a Roma, e scatta il meccanismo dell'Inquisizione. Un meccanismo che solo in superficie fa leva sul conflitto tra scienza e fede, e che in realtà vuole bloccare un sapere che cerca la verità per conto suo, produce innovazioni, pretende di «avanzarsi» nella libertà dei singoli studiosi e vuole relegare le verità religiose nella sfera del privato: le verità rivelate da Dio debbono invece restare alla base del potere pubblico.
Il dramma galileiano, così inteso, non appartiene allora ad un tempo ormai lontano, e il processo e l'abiura del 1633 non sono faccende da eruditi o vecchie questioni da risolvere parlando di riabilitazione del grande scienziato. Se infatti accettiamo di essere gli eredi di Galilei, allora dobbiamo anche accollarci il peso di questa eredità. Ed è un peso massiccio, poiché le conoscenze sulla natura si stanno espandendo, e il numero di coloro che temono una simile espansione è elevato sia nella cultura laica che in quella che alla fede si ispira.
Vale allora la pena di chiederci se l'eredità galileiana è bene amministrata in Italia, e cioè in una Repubblica dove i costi dell'istruzione superiore sono spese da tagliare e dove è ancora respinta la proposta di Galilei secondo la quale spetta alla scienza dire come è fatto il cielo e tocca invece ai sacerdoti spiegare come si faccia ad andarci, in cielo. Non è accidentale, infatti, che le controversie su Darwin siano quanto mai accese. Non è accidentale perché è ancora viva, qui da noi, l'inclinazione a temere le innovazioni generate dai cervelli inquieti: il processo a Galilei non è ancora finito.
Torniamo ora all'indietro nel tempo, e cerchiamo di meglio cogliere questo tema del timore del nuovo. Nel 1610 si stampa il «Sidereus Nuncius» e Galilei vi scrive di come il telescopio riveli che la Via Lattea non è una specie di nube biancheggiante, ma una congerie sterminata di stelle: grazie alle lenti e «con la certezza offerta dagli occhi» si risolvono «tutte le discussioni che per tanti secoli hanno inquietato i filosofi» e ci liberiamo da «dispute fatte solo di parole». Nei mesi successivi il telescopio porta ad altre scoperte e Galilei insiste sia nel privilegiare la «podestà assoluta della ragione» sia nel criticare «gl'inimici delle novità, il numero de i quali è infinito». La virtù della ragione, dunque, e la libertà del singolo studioso anche di fronte a infiniti «inimici», consentono «d'investigare, come problema massimo ed ammirando, la vera costituzione dell'universo, poi che tal costituzione è, ed è in modo solo, vero, reale ed impossibile ad esser altamente».
Un punto di vista rivoluzionario, questo, perché difende la libertà del singolo e la ricerca del vero dalle critiche di una maggioranza che rigetta ogni novità e si affida alle regole non negoziabili di una alleanza stabile tra metafisica e teologia. Il conflitto era già venuto alla luce nel 1543, quando il trattato di Copernico andava alle stampe e il suo autore, morente, non poteva impedire che al libro fosse aggiunta una breve ed anonima prefazione. In quelle poche righe, scritte in realtà da un teologo, si spiegava al lettore che le ipotesi astronomiche non erano né vere, né verosimili: lo scienziato e il filosofo, quindi, non troveranno mai «qualcosa di certo, se non gli sarà rivelato da Dio».
Ed è il sigillo divino sulla verità che Galilei infrange quando pretende che la scienza debba esplorare «la vera costituzione dell'universo». Ma il sigillo è onorato nelle chiese e nelle università, con il consenso di una cultura diffusa secondo la quale tutto ciò che vi è da sapere è già noto e nulla di nuovo può emergere - poiché la natura stessa ha già parlato con la bocca di Aristotele. Chi spezza il sigillo, allora, è isolato. Non a caso Galilei reagisce, nel «Dialogo» del 1632, quando fa dire al perdente Simplicio che la nuova scienza «tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo». Per subito rispondergli così: «La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute... ché quanto alla scienza stessa, ella non può se non avanzarsi».
Ma le ragioni della libera ragione sono subito negate a Roma, e scatta il meccanismo dell'Inquisizione. Un meccanismo che solo in superficie fa leva sul conflitto tra scienza e fede, e che in realtà vuole bloccare un sapere che cerca la verità per conto suo, produce innovazioni, pretende di «avanzarsi» nella libertà dei singoli studiosi e vuole relegare le verità religiose nella sfera del privato: le verità rivelate da Dio debbono invece restare alla base del potere pubblico.
Il dramma galileiano, così inteso, non appartiene allora ad un tempo ormai lontano, e il processo e l'abiura del 1633 non sono faccende da eruditi o vecchie questioni da risolvere parlando di riabilitazione del grande scienziato. Se infatti accettiamo di essere gli eredi di Galilei, allora dobbiamo anche accollarci il peso di questa eredità. Ed è un peso massiccio, poiché le conoscenze sulla natura si stanno espandendo, e il numero di coloro che temono una simile espansione è elevato sia nella cultura laica che in quella che alla fede si ispira.
Vale allora la pena di chiederci se l'eredità galileiana è bene amministrata in Italia, e cioè in una Repubblica dove i costi dell'istruzione superiore sono spese da tagliare e dove è ancora respinta la proposta di Galilei secondo la quale spetta alla scienza dire come è fatto il cielo e tocca invece ai sacerdoti spiegare come si faccia ad andarci, in cielo. Non è accidentale, infatti, che le controversie su Darwin siano quanto mai accese. Non è accidentale perché è ancora viva, qui da noi, l'inclinazione a temere le innovazioni generate dai cervelli inquieti: il processo a Galilei non è ancora finito.
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