mercoledì 25 febbraio 2009

Quando l'aringa era "global"


25/2/2009
WALTER BARBERIS

Non sappiamo come e quando la crisi economica che ha avviato tutto il mondo verso un futuro incerto finirà. Sappiamo che è figlia di una finanza dissennata e truffaldina che ha venduto ciò che non possedeva, inventando e diffondendo come virus scatole luccicanti e tuttavia vuote di ogni contenuto materiale. Storditi dal tracollo, molti rimpiangono attività manifatturiere che non ci sono più e guardano indietro ai bei tempi andati di una economia più sorvegliata e fatta di cose tangibili. Si sente aria di laudatio temporis acti, cioè di nostalgia per un passato migliore per definizione. Ma il passato questa storia l’ha già raccontata.

Riandando agli albori del capitalismo moderno, infatti, constatiamo che l’azzardo nello scambio e la scommessa su valori non effettivamente posseduti era già presente. E per un certo periodo fu parte di un sistema florido e dinamico, quello che fece grande l’Olanda del Seicento.

Quegli uomini sobri e vestiti di scuro, giusto illuminati da linde gorgiere o da ampi colletti bianchi, ritratti da Rembrandt van Rijn o da Frans Hals nell’atto di esaminare documenti contabili, attorno a un desco traboccante di ricche vivande o ancora nelle uniformi di una milizia cittadina; ebbene quei tipi a tutta prima agiati e gaudenti, erano i più attivi speculatori della loro epoca, i più arditi mercanti e i più ingegnosi animatori di una economia già globalizzata. Erano loro che nel 1602 avevano dato vita alla famosa Compagnia olandese delle Indie Occidentali, loro che dopo le stagioni felici di Firenze, di Venezia e di Genova, avevano portato ad Amsterdam la capitale di ogni traffico di merci e di titoli.

Diversissimi dai molti aristocratici che se ne stavano nelle loro proprietà di campagna a godere di rendite fondiarie più o meno cospicue, ostinatamente attardati a difendere titoli di nobiltà di ascendenza feudale e relative abitudini ad una oziosa esistenza, vestiti di sete sgargianti e piumati come pavoni, quei borghesi di Amsterdam viceversa non avevano terre da mettere a frutto: combattevano la minaccia del mare solcandolo in ogni direzione con naviglio di vario tonnellaggio, trasportando e scambiando qualunque tipo di merce. Dall’Africa alle Indie, dalle Americhe al Baltico, dal Mediterraneo al Mare del Nord, essi presidiavano le mille rotte che portavano ad Amsterdam, in breve divenuta la principale piazza finanziaria del tempo. Commercio e credito avevano là il loro fulcro europeo, dunque mondiale. Senza capitali cospicui nessuna grande impresa sarebbe stata possibile. E ad Amsterdam i proventi di quell’enorme gioco degli scambi portavano molto denaro; col quale si finanziavano spedizioni in terre lontane.

Il circolo pareva virtuoso. Quando in genere le banche si occupavano di gestire i depositi e di predisporre i trasferimenti dei fondi, il sistema bancario di Amsterdam si arrischiava sul terreno dei prestiti e degli anticipi. Quel polmone finanziario consentì il successo dei grandi monopolisti; con enormi riserve di capitale, quei sagaci borghesi dettarono per anni e ovunque i prezzi di gran parte dei prodotti. Dotati di grandi magazzini, potevano comprare alla produzione con denaro contante e poi stipare la merce finché la domanda non fosse parsa loro particolarmente favorevole: erano in grado di ammassare grano sufficiente a coprire il fabbisogno di tutte le Province Unite per dieci anni e più, fanoni e olio di balena, zucchero, spezie, profumi, tabacco del Maryland, cacao del Venezuela, rame svedese, catrame polacco, panni inglesi, vini francesi, pellicce russe, canapa del Baltico, sete italiane e del Levante. Ogni guerra era una manna: riempivano i loro fondachi e aspettavano la crisi che ne sarebbe seguita, con inesorabile penuria di beni e conseguente aumento dei prezzi. Divennero ricchi, molto ricchi. Ma esagerarono: si sentirono animati da una forza prometeica, capaci di ogni impresa. Il loro manifesto era il Mare liberum di Grozio, il canone di un liberismo assoluto. Non smisero di vendere neppure in guerra ai loro nemici; piombo e polvere da sparo ai Francesi, cordame e vele agli Inglesi. La febbre dei traffici li esaltò. E li avviò al declino. Abusarono della loro forza, cominciarono a scommettere: trattarono in borsa partite di aringhe ben lungi dall’essere pescate, granaglie non ancora seminate, arrischiarono denaro su bulbi di tulipano immaturi, su tutto. Agenti e intermediari di ogni tipo giocarono al rialzo e al ribasso di titoli mai posseduti. Corsero rischi sempre più azzardati. E alla fine dovettero cedere a un mercato più regolato, quello di una Inghilterra che aveva risposto a Grozio, nel 1635, con un libello del giurista John Selden intitolato non a caso Mare clausum. Un’Inghilterra che varava nel 1651 l’Atto di Navigazione e costituiva nel 1678 il Council of Trade and Plantation. A Londra maturava un’altra idea di capitalismo e di mercato: si pensava, ad esempio, che lo Stato avesse un ruolo normativo, a tutela e disciplina di un mercato libero, ma non fuori controllo.

L’Olanda, quasi priva di un telaio statuale, forte delle sue borghesie urbane associate in corporazioni di mestiere, non riusciva a concepire altro che una illimitata libertà di azione. L’Inghilterra, viceversa, nella sua vorticosa trasformazione da country agreste a potenza industriale suggeriva una integrazione fra interessi pubblici e interessi privati, con istituzioni a regolamentarne un corretto equilibrio. E’ storia. Amsterdam rimase città di mercanti; Londra divenne dai primi del secolo XVIII non solo la più importante piazza finanziaria del mondo, ma anche la capitale del più grande impero economico e politico che la storia moderna abbia mai conosciuto. Leggendo ogni mattina con qualche trepidazione le ultime notizie da Wall Street, quella lezione di economia politica parrebbe tuttora attuale.

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