29 MARZO 2009
Non è solo il corpo a esser sequestrato, dalla legge che il Senato ha approvato sul testamento biologico. Molte cose giuste sono state scritte sullo Stato espropriatore, ma la presa di possesso oltrepassa l’organico. È la vita a essere sequestrata, nel suo scabroso intreccio tra materia e spirito, corpo e anima. Più precisamente, è l’idea che da millenni ci facciamo del vivere bene, che non è mero vegetare ma vivere pensando, ragionando, capendo chi soffre. In questo viver bene, il pensiero della morte è, oltre che centrale, il più vitale dei pensieri. Non è il finale segmento della strada terrena, ma quel che le dà profondità, sapore. Per la filosofia antica, a cominciare da Platone, l’esistere saggio consiste proprio in questo: nel prepararsi alla morte, l’anima impara a esser «tutta raccolta in sé»; s’abitua a vivere «senza impacci», più liberamente sceglie la virtù.
Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte, melete thanatou: allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare l’intelligenza, la perfezione.
Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e anche il male, non potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio questo: una preparazione del fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre autonomamente la sua conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere da tutori non scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.
La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo permette. La Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la nostra volontà dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si limitano a gestire al nostro posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi si esercita a morire è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di sé, darsi da soli una legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non solo ai confini d’un territorio geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere, bio-politica: due parole che Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la metamorfosi della medicina. Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma «fa vivere»: complice della tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali. Beppino Englaro non ha torto quando dichiara: «Adesso lo Stato si crede Dio». Fini, parlando della legge ieri al Congresso Pdl, ha ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.
Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere dell’uomo e l’antichissima arte medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa capire Umberto Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: «La medicina tecnologica moderna è in grado di spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una vita artificiale che permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività cerebrale, senza coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola». Nutrimento e idratazione forzati dei comatosi non sono trattamenti terapeutici ma «forme di sostegno vitale», dice la legge, e anche questo è opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario (Veronesi ha descritto crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura e a Dio. Foucault parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina aspettante e dell’avvento della medicina interventista, tecnologica. Il medico aspettante non rompe il rapporto con la natura. Spera di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la sua necessità. I rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero - i medici pagati con i beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.
Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo la libertà. Gli toglie la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per questo non è appropriato parlare esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che impregna il viver bene, se è vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei testamenti (quello che riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e memoria di una vita fatta di emancipazioni.
Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l'ideale. Non contano l'uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, «gettato lontano» nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.
Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.
La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità. È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: «A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole» (Kant, Risposta alla domanda: cos'è l'Illuminismo?).
Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre hanno qualcosa di guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il bello delle costituzioni è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori significa non vederne più di supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.
Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici, ascoltare punti di vista diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso eticamente: se mi affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si trasformi in boia, servendo magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi in società senescenti). È vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire temiamo il soffrire. Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia ridotto a lattante.
Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte, melete thanatou: allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare l’intelligenza, la perfezione.
Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e anche il male, non potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio questo: una preparazione del fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre autonomamente la sua conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere da tutori non scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.
La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo permette. La Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la nostra volontà dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si limitano a gestire al nostro posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi si esercita a morire è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di sé, darsi da soli una legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non solo ai confini d’un territorio geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere, bio-politica: due parole che Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la metamorfosi della medicina. Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma «fa vivere»: complice della tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali. Beppino Englaro non ha torto quando dichiara: «Adesso lo Stato si crede Dio». Fini, parlando della legge ieri al Congresso Pdl, ha ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.
Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere dell’uomo e l’antichissima arte medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa capire Umberto Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: «La medicina tecnologica moderna è in grado di spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una vita artificiale che permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività cerebrale, senza coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola». Nutrimento e idratazione forzati dei comatosi non sono trattamenti terapeutici ma «forme di sostegno vitale», dice la legge, e anche questo è opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario (Veronesi ha descritto crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura e a Dio. Foucault parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina aspettante e dell’avvento della medicina interventista, tecnologica. Il medico aspettante non rompe il rapporto con la natura. Spera di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la sua necessità. I rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero - i medici pagati con i beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.
Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo la libertà. Gli toglie la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per questo non è appropriato parlare esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che impregna il viver bene, se è vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei testamenti (quello che riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e memoria di una vita fatta di emancipazioni.
Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l'ideale. Non contano l'uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, «gettato lontano» nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.
Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.
La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità. È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: «A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole» (Kant, Risposta alla domanda: cos'è l'Illuminismo?).
Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre hanno qualcosa di guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il bello delle costituzioni è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori significa non vederne più di supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.
Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici, ascoltare punti di vista diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso eticamente: se mi affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si trasformi in boia, servendo magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi in società senescenti). È vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire temiamo il soffrire. Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia ridotto a lattante.
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