giovedì 19 marzo 2009

Le toghe in politica


19/3/2009
CARLO FEDERICO GROSSO

In occasione dell’esame della domanda di Luigi De Magistris di essere messo in aspettativa dalla magistratura in vista della sua candidatura alle elezioni europee, il presidente del Csm, Nicola Mancino, ha affermato che occorrerebbe introdurre la regola secondo cui un magistrato che entra in politica deve rinunciare per sempre alla toga. Perché, ha specificato il presidente, candidandosi il giudice o il pubblico ministero dimostra di essere diventato parte politica. Bisognerebbe ricorrere al principio di mobilità nella pubblica amministrazione.

In tal caso, prevedendo che il magistrato, alla fine del mandato, entri in un’amministrazione diversa da quella giudiziaria, si conseguirebbe invece il doppio vantaggio di acquisire alla pubblica amministrazione un patrimonio di esperienza e di professionalità senza pari e di allontanare dall’ordine giudiziario un magistrato che rischierebbe di apparire parziale, danneggiando l’immagine dell’intera magistratura.

Non so se sia stata, quella utilizzata, l’occasione più opportuna per esprimere tale opinione, in quanto il Consiglio e il suo presidente sono di recente intervenuti in sede disciplinare nei confronti di De Magistris e tali interventi hanno alimentato polemiche tuttora non sopite. È comunque un fatto che Mancino ha evidenziato un problema di carattere generale sul quale si è, in passato, ampiamente discusso, e sul quale merita tuttora ragionare.

Oggi è previsto che i magistrati non siano eleggibili nelle circoscrizioni sottoposte alla giurisdizione degli uffici presso i quali hanno esercitato le loro funzioni nei sei mesi precedenti la data di accettazione della candidatura. È stabilito che i magistrati che si sono candidati, ma non sono stati eletti, nei cinque anni successivi non possono esercitare funzioni giudiziarie nella circoscrizione nel cui ambito si sono presentati alle elezioni. Dal 2006 è stato ulteriormente disposto che quando cessano dalla funzione politica i magistrati devono scegliere un ufficio situato in una Regione diversa sia da quella nella quale era ubicata la sede di provenienza, sia da quella in cui sono stati eletti (salvo che si tratti di soggetti facenti parte della Cassazione, della Procura Generale presso la Cassazione e della Direzione Nazionale Antimafia, in ragione della competenza nazionale di tali uffici).

Predisponendo questa griglia articolata di regole che impongono condizioni d’ineleggibilità e limitazioni nei luoghi di possibile riassunzione in magistratura, il legislatore ha cercato di contemperare due principi costituzionali contrapposti: il diritto di chiunque, e pertanto anche del cittadino magistrato, di non essere escluso dall’esercizio dei diritti elettorali passivi e l’esigenza di salvaguardare l’immagine d’indipendenza del singolo magistrato e della magistratura nel suo insieme. L’impatto sull’immagine d’indipendenza, si sostiene, si affievolisce se il magistrato eletto rientra nei ruoli della magistratura in un luogo lontano sia da quello dove lo si conosceva come giudice o come pubblico ministero, sia da quello in cui egli si è adoperato per farsi eleggere.

Mancino ritiene, evidentemente, che queste limitazioni non siano sufficienti a garantire l’immagine d’indipendenza indispensabile a chi esercita una funzione giudiziaria. E forse ha ragione. Il magistrato che si è impegnato direttamente in politica iscrivendosi a un partito, partecipando alle competizioni elettorali, discettando e polemizzando in un’assemblea elettiva, ha assunto sicuramente ruoli «di parte», ha compiuto scelte «di parte», ha parlato pubblicamente come soggetto «di parte». E questa sua posizione di parte è diventata tanto più evidente quanto maggiore sono stati il suo impegno e la sua visibilità, il rilievo e l’incisività della sua attività, il successo delle sue iniziative politiche.

Ecco perché, allora, potrebbe essere auspicabile la scelta radicale: il magistrato che sceglie l’avventura politica ha ovviamente il diritto di coltivare, come ogni altro cittadino, questa sua passione. Gli si imponga tuttavia un sacrificio. Quando deciderà di abbandonare l’impegno politico, gli si assicuri all’interno della pubblica amministrazione (magari garantendogli ampia facoltà di scelta) una funzione, un grado, uno stipendio adeguato al ruolo e alla funzione precedentemente esercitata. Non sia più, tuttavia, nell’esercizio della funzione giudiziaria. Nell’interesse, superiore, della migliore immagine d’imparzialità dell’amministrazione della giustizia.

Si dirà: la Corte Costituzionale, a garanzia delle posizioni precostituite, ha più volte enunciato il principio generale secondo cui il parlamentare ha diritto di conservare il «proprio» posto di lavoro. Giusto, in linea di principio. Ma davvero questo principio non può trovare, in qualche caso, limitazioni o censure nella prospettiva del rispetto di altri, superiori, interessi di carattere generale? Si può d’altro canto osservare che numerosi magistrati hanno già interpretato questa esigenza a livello di scelta personale di opportunità. Una riforma che recepisse le suggestioni evocate ieri dal presidente del Csm, pur imponendo una regola rigorosa di comportamento, l’arricchirebbe comunque di una forte garanzia, poiché al magistrato che avesse scelto di fare un’esperienza politica sarebbe in ogni caso assicurato un ruolo di rango all’interno dell’amministrazione pubblica.

Lo stesso De Magistris, secondo quanto hanno riportato ieri le agenzie di stampa, ha d’altronde reagito alle parole di Mancino affermando che la sua è una scelta di vita e che, in ogni caso, mai ritornerà ad esercitare le sue pregresse funzioni giudiziarie.

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